Pensioni povere per giovani e donne

Nel 2024 gli iscritti alle forme di previdenza complementare hanno quasi raggiunto i 10 milioni con un aumento del 4% rispetto al 2023. Le cose stanno dunque andando nel verso giusto ma la situazione in Italia resta ancora indietro rispetto a quanto avviene nelle altre grandi economie. Da noi meno di un lavoratore su quattro (38,3%) ha aderito al secondo o al terzo pilastro della previdenza integrativa, mentre la media dei Paesi Ocse ha già raggiunto il 50%, ovvero un lavoratore su due. Inoltre circa un iscritto su quattro – circa 2,7 milioni di lavoratori – ha smesso di fare versamenti. Questo rappresenta un problema in un contesto in cui l’importo delle pensioni (primo pilastro) è destinato a scendere con il progressivo spostamento verso il regime contributivo, che vale per chi ha iniziato a lavorare dopo il 1 gennaio del 1996 e solo in parte per chi ha iniziato prima.

“Il problema è particolarmente sentito dai giovani, che devono fare i conti con la precarietà dell’impiego, e dalle donne, che spesso non riescono ad avere una vita lavorativa continuativa a causa della maternità e del loro maggior impegno nell’accudimento dei familiari non completamente autosufficienti”, spiega Emanuela Notari, longevity strategist, facendo notare come nel regime contributivo sia estremamente importante non avere “buchi” nella propria vita lavorativa. L’allungamento della vita media complica ulteriormente le cose perché chi riceverà un basso assegno pensionistico e non sarà riuscito a mettere una somma significativa da parte dovrà fare i conti con una vecchiaia lunga e “povera”.

Secondo l’esperta, l’integrazione della pensione non deve necessariamente avvenire con la cosiddetta previdenza integrativa, ma può prendere anche la forma dei piani di accumulo (Pac), a patto che questi siano realmente tali, ovvero che il capitale accumulato cresca regolarmente senza ripensamenti. “Vendere i propri investimenti perché spaventati dall’andamento dei mercati o per altre ragioni è l’errore da non commettere – prosegue Notari – perché il capitale accumulato deve poter esser speso solo una volta arrivati alla pensione”. Ed è proprio per questo motivo che i fondi pensione limitano fortemente l’anticipazione, che può venir richiesta solo in determinate situazioni (spese sanitarie, ristrutturazione della casa) e quasi mai completamente (le uniche casistiche che danno diritto al riscatto totale sono l’invalidità permanente e la disoccupazione di lungo periodo).

“L’approccio dei lavoratori italiani alle problematiche previdenziali sconta anche una mancanza di educazione finanziaria che, a mio parere, dovrebbe essere erogata dalle aziende stesse – dice Notari – Essa può far parte a pieno titolo del welfare aziendale, anche perché un dipendente più consapevole e dotato di strumenti per orientarsi è una persona meno preoccupata e quindi più produttiva”. Ulteriori miglioramenti dovrebbero però arrivare anche da un perfezionamento normativo della previdenza complementare che, a distanza di trent’anni dalla sua introduzione e a quasi venti dalla definizione del suo attuale assetto, stenta ancora a decollare. Secondo la longevity strategist, ampliare l’importo massimo deducibile (fissato a 5.164,57 annui) potrebbe per esempio essere una mossa utile per favorire i versamenti nei fondi pensione. “Longevità e denatalità stanno cambiando la nostra società, le nostre imprese e il nostro ciclo di vita – conclude Notari – Siamo chiamati a rivedere il modo in cui ci prepariamo al futuro. Una vita così lunga ha bisogno di nuovi equilibri per essere sostenibile. Consapevolezza dei cambiamenti e pianificazione della longevità sono gli strumenti necessari. Per gli individui come per le imprese”.

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