Sanità, le famiglie italiane spendono 40 miliardi. Ma il 40% è per prestazioni “inutili”

MILANO – Le famiglie italiane spendono di tasca loro per la sanità più della media dei Paesi avanzati, oltre 40 miliardi di euro, ma lo fanno in maniera inefficiente: il 40% riguarda prestazioni a basso valore. Mentre è estremamente inferiore la spesa sanitaria mediata dai fondi e le assicurazioni specifici, segno di un ritardo nella copertura con questa tipologia di strumenti.

I dati sono frutto di un ricognizione affidata dall’Osservatorio Nazionale Welfare & Salute (ONWS) all’Osservatorio Gimbe, presentata stamane al Cnel. Secondo i dati Istat, nel 2023 la spesa sanitaria totale in Italia ha raggiunto 176,1 miliardi di cui 130,3 miliardi di spesa pubblica (74%), 40,6 di spesa privata pagata direttamente delle famiglie (23%, in aumento di quasi il 27% tra 2012 e 2022) e 5,2 di spesa privata intermediata da fondi sanitari e assicurazioni (3%). Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe, rimarca che “questi valori riflettono tre fenomeni chiave: il sottofinanziamento pubblico, l’ipotrofia del sistema di intermediazione e il crescente carico economico sulle famiglie”. La fotografia di una situazione che ci pone ancora “molto lontani dalla soglia suggerita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità: per garantire equità e accessibilità alle cure, la spesa out-of-pocket – cioè ‘di tasca propria’, ovvero sostenuta direttamente dai cittadini e non coperta da assicurazioni o rimborsi – non dovrebbe superare il 15% della spesa sanitaria totale”.

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Si spende tanto ma male

Se si guarda in particolare la cosiddetta spesa sanitaria out-of-pocket pro capite, con 1.115 dollari l’Italia supera sia la media Ocse che quella dei paesi Ue (entrambe pari a 906 dollari), con una differenza di 209. Tra gli stati membri dell’Ue, solo Portogallo, Belgio, Austria e Lituania spendono più dell’Italia. Per cosa si spende, allora? Sulla base dei dati Istat le principali voci di spesa sanitaria delle famiglie includono l’assistenza sanitaria per cura (comprese le prestazioni odontoiatriche) e riabilitazione, che rappresenta il 44,6% del totale (18,1 miliardi). Seguono i prodotti farmaceutici e apparecchi terapeutici (36,9%, pari a 15 miliardi) e l’assistenza a lungo termine (LTC), che assorbe il 10,9% della spesa complessiva, per un totale di 4,4 miliardi.

“Tuttavia – spiega Ivano Russo, Presidente di ONWS – le stime effettuate nel report indicano che circa il 40% della spesa delle famiglie è a basso valore, ovvero non apporta reali benefici alla salute. Si tratta di prodotti e servizi il cui acquisto è indotto dal consumismo sanitario o da preferenze individuali quali ad esempio esami diagnostici e visite specialistiche inappropriati o terapie inefficaci o inappropriate”.

Per altro, un argine a questa spesa sta sì avvenendo ma non per scelte oculate: sono le rinunce alle cure che nel 2023 hanno interessato circa 4,5 milioni di persone, di cui 2,5 milioni per motivi economici, con un incremento di quasi 600.000 persone rispetto al 2022.

Fondi e polizze marginali e in difficoltà

Se c’è una classifica per l’Italia è invece indietro è per la spesa intermediata attraverso fondi sanitari, polizze individuali e altre forme di finanziamento collettivo: nel 2023 questa voce ammonta a 5,2 miliardi, ovvero il 3% della spesa sanitaria totale e l’11,4% di quella privata. Con un valore pro-capite di 143 dollari, il dato italiano è meno della metà della media Ocse (299) e ben al di sotto della media dei paesi Ue (262). Tra gli stati membri dell’Ue, evidenzia ancora il rapporto, ben 12 spendono più dell’Italia, con differenze che vanno dai +33 dollari della Danimarca ai +688 dell’Irlanda, mentre altri 9 paesi spendono meno: dai -5 delle Grecia ai -116 della Repubblica Slovacca.

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C’è poi da considerare che il 31,6% della spesa intermediata viene assorbito dai costi di gestione, mentre poco meno del 70% è destinato a servizi e prestazioni per gli iscritti. E poi, tra il 2020 e il 2023 i fondi sanitari integrativi hanno progressivamente aumentato le risorse destinate all’erogazione di prestazioni, riducendo il margine rispetto alle quote incassate. «In altri termini – continua Russo – la crisi della sanità pubblica e, soprattutto, la sua incapacità di garantire prestazioni tempestive stanno spostando sempre più bisogni di salute sui fondi sanitari, mettendo a rischio la loro stessa sostenibilità”.

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