Amarcord gialloverde: “Giuseppi” Conte e Matteo Salvini ritrovano il feeling con Donald Trump
Roma – C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole americano, anzi d’antico. È sbocciata la primavera gialloverde, è tutto un fiorire di elogi e complimenti a The Donald da parte dei vecchi alleati del governo Lega-Cinque stelle. Cinque anni scorrono in fretta, si può riprendere da dove l’amicizia si era interrotta, da quel tweet del 2019 rimasto famoso in cui Trump definiva “Giuseppi” Conte «un uomo di grande talento». Di più, «un tipo davvero fantastico». Giudizio ribadito giusto un paio di anni fa, a una raccolta fondi del 2022: «Come sta andando il mio amico? Ho lavorato bene con lui, è davvero una gran brava persona».
Salvini e Conte, l’amarcord scatta subito. «Che gioia, che vittoria, giornata storica», esulta il capo della Lega, che finalmente ne ha imbroccata una. I Cinque stelle forse la pensano alla stessa maniera – e del resto bastava leggere in questi giorni il loro giornale di riferimento – ma restano sulla soglia di una gioia appena più trattenuta.
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Lo zenit lo raggiunge la delegazione degli eurodeputati contiani (grillini non si può più dire), con un comunicato che sembra scritto da Elon Musk. «A Donald Trump facciamo le nostre congratulazioni», esordiscono, per poi virare rapidamente su una sculacciata ai democratici italiani: «La vittoria netta di Trump è innanzitutto una lezione per tutti i finti progressisti liberisti e globalisti che hanno ammainato la bandiera della pace per sposare ogni spinta guerrafondaia». Questi finti progressisti, che poi sarebbero gli alleati dei Cinque stelle in Italia, devono piuttosto andare a lezione da Trump e «non temere una piattaforma in difesa dei ceti popolari, dei più poveri, delle masse dei lavoratori che non arrivano alla fine del mese». Caspita, nemmeno Bannon saprebbe dirlo meglio.
Giuseppe Conte è più istituzionale, non fa mancare le sue felicitazioni «al 47esimo presidente degli Stati Uniti» quasi fosse ancora a palazzo Chigi e sottolinea che quella dell’amico Donald «è una vittoria netta, estesa anche al voto popolare». La parola d’ordine, per cinquestelle e leghisti, è una e una soltanto: pace, il resto è secondario. Pace in Ucraina, che arriverà certamente con Trump e Putin, e pace in Medio Oriente. «È la dote più grande che Donald Trump può portare all’Europa e al mondo: la pace», conferma Salvini da Vespa.
Su X Pasquale Tridico – il rappresentante dell’ala più di sinistra e sociale del Movimento – si sgola per spiegare che «nessuno ha esultato» per la vittoria di Trump e che «siderale è la distanza» con il leader repubblicano su «diritti, economia, migrazione, ecc». Ma il sentimento prevalente, a dispetto delle smentite, è un altro.
I contiani si risentono, protestano per chi li vuole schiacciare su Trump. Eppure, persino nel tentativo di respingere le accuse, finiscono sempre lì: a elogiare la scelta della maggioranza Usa e a criticare Harris. Come la deputata 5S Marianna Ricciardi, incaricata di negare la vicinanza con i Maga trumpiani, che finisce suo malgrado a ribadire dove davvero batte il cuore: «Gli americani hanno scelto Trump, con il voto, ossia lo strumento democratico per eccellenza. Gli Stati Uniti hanno espresso una volontà palese, giusta o sbagliata non sta a noi dirlo. Anche perché, a mio parere, se è vero che Trump non avrebbe mai potuto essere un candidato ideale per noi, è vero pure che anche la Harris è stata una candidata debole, imposta dall’alto a metà corsa e che ha preferito la continuità con Biden e le politiche che piacciono ai ricchi e potenti, incluse, soprattutto, quelle belliciste». Alè. Come direbbe Musk: game, set, match.
I dem italiani, naturalmente, quando leggono queste dichiarazioni si costringono a ingoiare scatolette di Maalox e stanno zitti. Tra dieci giorni si vota in Umbria ed Emilia-Romagna, ci manca solo che perdano anche lì, dopo la Liguria. La consegna è non attaccare gli “alleati”. Bisogna bussare al vecchio Enrico Morando, riformista del Pd, per ottenere una considerazione fuori dai denti: «La verità è che, se gratti sotto la superficie, leghisti e grillini condividono la stessa avversione al liberalismo».
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