Diario da Gaza: “Qui ammalarsi è una condanna a morte”
DEIR AL-BALAH – A Deir al-Balah, l’unico ospedale ancora funzionante è l’Ospedale dei Martiri di Al-Aqsa. Accoglie persone ferite nei bombardamenti, casi critici e partorienti, ma è allo stremo. Le scorte mediche sono quasi esaurite. Il personale ripete: “Operiamo senza anestesia completa e riutilizziamo gli stessi strumenti più volte”. Mancano non solo farmaci e antibiotici, ma anche garze, guanti, sacche di sangue. Attorno all’ospedale sono sorte tende trasformate in cliniche da campo. Prima erano rifugi, ora punti di soccorso. Medici e volontari riescono a offrire in queste strutture improvvisate appena il minimo del servizio. Non ci sono macchinari e non è possibile fare esami diagnostici, si può solo tentare di alleviare il dolore. Una infermiera i racconta: “Non sappiamo più dove mandare i pazienti. Alcuni dormono nei corridoi, altri aspettano fuori, sotto il sole, per ore”.
Gaza, da 40 giorni senza aiuti
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Con i valichi chiusi e gli aiuti bloccati da oltre 41 giorni, nessuno sa quanto ancora potrà reggere la struttura. Oggi ammalarsi a Gaza può equivalere a una condanna a morte. Molte strutture sanitarie sono state colpite o non accettano più pazienti. Alcuni cercano aiuto da una clinica da campo all’altra, altri restano a casa, senza alternative. Una dottoressa confida: “Quello che fa più male non sono i feriti, ma le persone che muoiono in silenzio perché nessuno può salvarli. Oggi è stato bombardato l’edificio del municipio, vicino a una piccola clinica con risorse minime. Lì giovani volontari tentano di sopperire alla mancanza di personale e strumenti in tende allestite nel cortile come se fossero reparti. Un medico racconta: “Il bombardamento è stato vicinissimo. I pazienti erano nel panico, anche noi avevamo paura. Le schegge sono arrivate fino a noi. La clinica è piena di tende e le tende non proteggono da nulla.

Medici Senza Frontiere ha lanciato un allarme: la situazione sanitaria a Gaza si sta deteriorando a una velocità spaventosa. Per quanto mi riguarda anche io mi sono presa un brutto virus e sono stata malata diversi giorni debilitata, fino a quando ho chiamato una mia amica dottoressa per farmi visitare ma lei mi ha risposto: “Non venire. La clinica è piena di casi gravi. Potresti prenderti qualcosa di peggio”. Poi ha aggiunto con un tono più leggero: “Resta a letto. Bevi qualcosa di caldo”. E ha concluso ridendo: “Tanto le farmacie sono vuote. Non ci sono più medicine!”. In quella risata si sentiva tutta la sua stanchezza e la sua rassegnazione.
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Più di 1.550 operatori sanitari sono stati uccisi. Circa 70.000 bambini rischiano la malnutrizione grave. 650.000 attendono un vaccino contro la poliomielite, ma l’immunizzazione è stata bloccata. Il sistema sanitario è al collasso. Ventisette ospedali non sono più operativi. Tra questi c’è anche l’Ospedale dell’Amicizia Turco-Palestinese, unico centro oncologico della Striscia. Le malattie si diffondono rapidamente: febbre, astenia, malattie infettive della pelle. L’acqua è contaminata, l’igiene impossibile. Anche la polvere delle macerie è diventata veicolo di infezioni. Con l’estate in arrivo, si temono epidemie di scabbia, infezioni fungine e dermatiti. Il 59% dei farmaci essenziali e il 37% delle forniture mediche sono terminati.
Un medico mi ha spiegato: “Ogni settimana vediamo nuovi sintomi. Diagnostichiamo per intuizione, senza esami. Non ci sono laboratori, non ci sono macchinari. E con l’estate, temiamo il peggio”. D’altronde da troppo tempo l’estate a Gaza non è più mare e luce, ma caldo, infezioni, odori e ferite che non trovano una cura. Un dottore, parlando dell’attacco all’ospedale Al-Ahli di Gaza City, mi ha raccontato: “Non sappiamo più se stiamo salvando vite o cercando di proteggere le nostre. Siamo diventati tutti bersagli e la medicina è diventata un rischio quotidiano”.
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L’Al-Alhi era uno degli ultimi rifugi per pazienti cronici e donne incinte. Ora anche le strutture con il simbolo della Croce Rossa non sono più considerate sicure. Il dottor Khalil dice: “Questo è il mio dovere, e voglio fare tutto il possibile”. Poi aggiunge, dopo una pausa: “Ma sono stanco, stiamo vedendo cose che la mente umana da sola non riesce a elaborare. E non abbiamo nessuno con cui parlarne”. Il dolore è ovunque. Non c’è più tempo per guarire, né luoghi sicuri, né medicine. La domanda che mi faccio a questo punto: Le parole possono bastare quando persino le medicine sono finite?
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