Gaza: obiettivo isolare Hamas. Ma l’esercito di Israele mostra crepe
L’operazione “Carri di Gedeone” – un piano che già circolava con il nome più evocativo di “Piccola Gaza” – si presenta come una scelta drammatica in un territorio dove ogni azione militare finora non è stata capace di cancellare Hamas. Diciotto mesi di bombardamenti e assalti sul campo hanno raso al suolo o danneggiato oltre 170 mila edifici e provocato un numero senza precedenti di vittime civili, oltre 51 mila per le autorità di Gaza, ma non sono riusciti a smantellare il movimento jihadista che ha condotto le stragi del 7 ottobre 2023. Durante la trattativa per l’ultima tregua, Hamas ha dimostrato di avere ancora un’organizzazione gerarchica e l’abisso di disperazione creato nella Striscia gli ha permesso di sostituire le perdite con nuove reclute, meno addestrate ma animate da un odio profondo verso Israele, a cui si è aggiunta parte dei prigionieri palestinesi rilasciati in cambio degli ostaggi.
Isolare Hamas
Il primo obiettivo della nuova offensiva è quello di eliminare il controllo della distribuzione degli aiuti, ritenuto dallo Stato Maggiore israeliano il caposaldo del potere di Hamas. Questo però comporta l’occupazione in maniera stabile di vaste zone di Gaza, per “isolare la popolazione dai terroristi”. In realtà, tutti i manuali di controguerriglia lo pongono come il punto di partenza: se non si dividono i combattenti dai civili, convincendoli a non collaborare con chi compie atti violenti, non c’è speranza di successo. E in genere la strada è quella – come teorizzavano gli americani in Iraq – di “conquistare i cuori”, non di deportare le persone riducendole allo stremo.
Il dato di fondo dell’operazione che sta per venire lanciata è il fallimento della strategia di “segmentazione e raid” adottata finora. Dall’ottobre 2023 le Israeli Defence Force sono penetrate nella Striscia e hanno interrotto le linee di comunicazione dei guerriglieri, dividendo il territorio in tanti settori. Poi hanno obbligato la popolazione a trasferirsi altrove, costruito basi fortificate temporanee e da lì portato avanti rastrellamenti area per area con mezzi corazzati accompagnati da fanti. Contemporaneamente caccia, droni e artiglieria hanno colpito con un volume di fuoco straordinario qualsiasi presenza di Hamas, reale o presunta dagli algoritmi a cui è affidata la gestione della campagna aerea.
La fenice jihadista
Questi blitz sono stati condizionati dalla detenzione degli ostaggi nei sotterranei, che ha impedito di concentrare l’assalto contro il fulcro della rete difensiva jihadista. Le fonti israeliane sostengono di avere demolito l’80% delle gallerie a Rafah e l’85% a Khan Younis: valutazioni accolte con scetticismo da altri osservatori e che comunque ne lasciano intatta una quota sufficiente a mantenere riserve di ordigni. Era un vincolo noto: il labirinto di tunnel è stato costruito nel corso di un ventennio proprio per garantire la sopravvivenza del movimento nello scenario peggiore. Mentre l’esercito israeliano è entrato a Gaza sulla scia dell’orrore per le 1200 vittime del 7 ottobre 2023, perseguendo un risultato – cancellare Hamas – che tutti gli analisti militari avevano ritenuto impossibile.
In questi diciotto mesi la formazione è stata amputata, con la morte di gran parte delle gerarchie, dei veterani e degli arsenali più sofisticati. Si stima che tra 17 e 20 mila miliziani siano stati uccisi, tra cui 9 comandanti di brigata, 31 di battaglione e 167 di compagnia o plotone: perdite che impediranno a lungo di mettere a segno azioni massicce come quelli che hanno travolto Israele il 7 ottobre 2023.
Secondo il Pentagono, almeno 15 mila uomini – spesso giovanissimi – sono andati a rimpiazzare i caduti e non pare ci sia carenza di armi. In particolare, si ritiene che oggi Hamas si rifornisca di tritolo prelevandolo dalle ogive delle bombe sganciate dagli aerei: si stima che quattromila non siano scoppiate. Più rilevanti per la tenuta dell’organizzazione i segnali di rivolta da parte degli abitanti, aumentati nelle scorse settimane: ci sono state esecuzioni spettacolari, minacce contro “i sediziosi” e un crescendo di appelli alla lotta. E ci sarebbe una competizione più dura con l’altra sigla che agisce nella Striscia, la cosiddetta Jihad Islamica.
Ma Hamas ha ancora una catena di comando funzionante. Realizza trappole con ordigni innescati via filo, spesso nascosti in strade che i soldati avevano già ispezionato, che vengono attivati quando l’arrivo delle pattuglie viene avvistato da telecamere nascoste tra le macerie. Sabato due militari sono stati ammazzati da una mina mentre espugnavano un cunicolo: erano guastatori dell’unità scelta Yahalom. In tutto le Idf hanno avuto 416 caduti a Gaza: durante il conflitto in Libano del 2006 erano stati in tutto 211. Sempre sabato due soldati sono stati feriti da un razzo rpg penetrato in un fortino: in caso di occupazione stabile, le postazioni dell’Idf diventeranno spesso bersaglio di incursioni simili e sarà complesso proteggere i rifornimenti dalle imboscate.
Il logoramento delle Idf
Le Israeli Defence Force devono anche fare i conti con un fattore umano: nella loro Storia non sono mai state impegnate in un conflitto così lungo. La stragrande maggioranza dei militari sono riservisti, che adesso per la settimana volta in un anno e mezzo vengono chiamati a indossare l’uniforme. All’inizio sono rimasti in servizio anche per sei mesi, poi il periodo è stato ridotto a 75-90 giorni, adesso non sarebbero state indicate scadenze: la nuova mobilitazione dovrebbe riguardare 60-70 mila persone. A quel che trapela, sarebbero destinati a presidiare il fronte attualmente meno caldo – quello libanese – permettendo alle brigate formate soprattutto da professionisti di trasferirsi nella Striscia.
Tra i riservisti e, non solo, si registrano indizi di logoramento. L’esperienza degli scontri casa per casa, combattendo in diversi casi in mezzo a donne e bambini, è sempre traumatica. Un rapporto redatto dal responsabile del dipartimento igiene mentale dell’Idf indica che le richieste di colloquio con gli psicologi sono raddoppiate rispetto alle precedenti campagne militari a Gaza, tutte durate al massimo poche settimane. Anche in brigate di punta come la Golani, la Givati e la Nahal i reduci accusano dissociazione, sensi di colpa verso i commilitoni caduti, disturbi del sonno. Sono le premesse alla PTSD, la sindrome che colpisce soprattutto gli uomini passati rapidamente dalla vita civile alla battaglia. Il Dipartimento riabilitazione delle Idf dai massacri del 7 ottobre ha assistito 16.500 militari feriti, quasi metà dei quali con sintomi di PTSD. In precedenza, su 62 mila feriti solo un quarto accusava gli stessi problemi. Finora 26 soldati si sono tolti la vita: ufficialmente sono presunti suicidi, perché le indagini sulla morte sono ancora aperte.
L’altra crepa è resa manifesta dalle petizioni contro il governo Netanyahu, a partire da quella firmata dai riservisti dell’aviazione che chiedono di dare la priorità alla liberazione degli ostaggi, a costo di interrompere la guerra: “Questa vicenda è diventata più grande e drammatica di quello che ci aspettassimo”, ha scritto Guy Poran, uno dei promotori della protesta poi imitata da personale dell’esercito. Infine c’è il malcontento crescente per il rifiuto degli Haredim, gli ebrei ultraortodossi, di servire nelle forze armate: solo trecento finora hanno risposto al precetto ed entro giugno 24 mila saranno chiamati alle armi. Il generale Effie Defrin, portavoce delle Idf, ieri ha detto: “C’è bisogno che tutti partecipino alla mobilitazione, lavoreremo perché tutte le componenti della società siano richiamate, anche gli Haredim”.
L’ultima pausa
Lo schieramento della nuova forza d’attacco richiederà un paio di settimane, poi bisognerà procedere al trasferimento della popolazione. I piani trapelati prevedono che l’offensiva comincerà dalla zona nord, quella dove era partita anche la manovra precedente e che era stata presentata già un anno fa come “bonificata” da Hamas. Come ha sottolineato il portavoce Idf, c’è la speranza che la minaccia di un’operazione ancora più violenta possa convincere i jihadisti a trattare la liberazione degli ultimi ostaggi. Un ultimo aspetto controverso riguarda il nome scelto: il carro di Gedeone. Nella Bibbia il condottiero ebraico guida trecento soldati con torce, trombe e piatti per far credere al nemico di disporre di una grande armata e convincerlo a ritirarsi. In pratica, un bluff che però testimonia anche la forza delle fede, in grado di sconfiggere rivali superiori per numero. Chissà a quale dei due aspetti si sono ispirati i generali israeliani.
Condividi questo contenuto: