L’effetto Trump si ripete in Australia. Conservatori sconfitti, “storica vittoria” di Albanese
LONDRA – Il “miracolo al contrario” di Donald Trump si è ripetuto: dopo il Canada, anche in Australia i progressisti vincono le elezioni recuperando consensi grazie all’effetto della guerra commerciale e in generale della politica aggressiva del presidente americano nei confronti degli storici alleati di Washington.
Secondo i dati preliminari sul voto che si è tenuto oggi, il premier laburista Anthony Albanese ha nettamente superato Peter Dutton, il candidato dell’alleanza di opposizione Liberal-Nazionale. “Potrebbe essere una grande vittoria per il Labour”, afferma l’Abc News, maggiore network televisivo australiano, e anche le altre reti tivù lo danno vincente.
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Crollano i conservatori
Non è ancora chiaro se Albanese riuscirà a governare da solo o dovrà allearsi con i Verdi e altri partiti indipendenti per formare una coalizione di maggioranza, ma la sua conferma al potere non viene data in dubbio, ribaltando le previsioni dei sondaggi di pochi mesi or sono.
Lo stesso Dutton ha perso il proprio seggio di Brisbane, battuto dalla candidata laburista locale, l’ex-giornalista e atleta paraolimpica Alice France, e uscirà perciò dal parlamento: “Dopo 24 anni in politica, è ora di lasciare”, ha concesso mestamente il capo dell’opposizione davanti ai propri sostenitori, “il nostro partito è andato male ma avrà occasioni di rifarsi”. Albanese è il primo premier confermato nell’incarico in Australia in vent’anni: ci riuscì per ultimo il liberale John Howard nel 2004.
Un’impresa storica per il premier di origine italiana, per la quale deve ringraziare anche Trump.
Diciotto milioni di australiani erano chiamati alle urne per eleggere 150 seggi della camera. Nell’ultimo anno l’aumento del costo della vita, il declino del servizio sanitario pubblico e la carenza di alloggi popolari avevano fatto scendere i consensi per il Labour, andato al potere nel 2022, costringendo il premier a indire elezioni anticipate.
Il ritorno di Albanese
Figlio di un immigrato di Barletta, il 62enne Albanese era riuscito a riportare la sinistra al governo ma, oltre che dalla crisi economica, è stato investito come altri leader progressisti dall’ondata di sentimenti anti immigrati e anti woke cavalcata dal movimento sovranista Maga negli Stati Uniti. Dopo la rielezione di Trump nel novembre scorso, il liberal-nazionale Dutton si è atteggiato sempre di più a “Trump australiano”, facendo proprie le battaglie e gli slogan del tycoon americano. Senonché, da quando Trump è rientrato alla Casa Bianca tre mesi or sono, le sue posizioni, in particolare l’aumento dei dazi, hanno pesato sulla campagna elettorale australiana in modo simile a quanto avvenuto in quella canadese.
Nei recenti sondaggi, il 48 per cento degli interpellati ha espresso un parere negativo su Trump e il trumpismo, con una percentuale ancora più alta tra i giovani, che in Australia costituiscono il 43 per cento dell’elettorato. A quel punto il leader Liberal-Nazionale ha abbandonato ogni riferimento a Trump ma evidentemente è stato troppo tardi. In un clima di crescente incertezza, l’elettorato ha preferito confermare un leader che promette di difendere i canadesi da ogni minaccia esterna, compresa a questo punto quella proveniente da Washington. Nel voto di tre anni or sono, Albanese aveva fatto campagna sul pericolo rappresentato dalla Cina, e ha stretto ulteriormente l’alleanza con l’America di Joe Biden.
Stavolta ha fatto campagna criticando l’America di Trump. Un’altra rassomiglianza con il Canada è che anche l’Australia appartiene al Commonwealth, l’associazione delle ex-colonie dell’Impero britannico, e come il Canada è una della dozzina di membri del Commonwealth (su sessanta) che continuano a essere monarchie costituzionali e hanno re Carlo come Capo di Stato. Un legame giudicato obsoleto, retaggio del colonialismo, da una parte della popolazione: in Australia, come in Canada, esistono da tempo movimenti che premono per diventare una repubblica, avere un presidente come Capo di Stato e spezzare l’ultima dipendenza da Londra, per quanto priva di qualsiasi potere reale e solamente cerimoniale.
Davanti all’offensiva di Trump verso gli alleati (sia Canada che Australia fanno parte dei Five Eyes, i Cinque Occhi, il patto di cooperazione fra i servizi segreti dei Paesi di lingua inglese – gli altri sono Usa, Regno Unito e Nuova Zelanda), il rapporto con il Commonwealth, che riunisce due miliardi di persone, un quarto dell’umanità, offre un contrappeso alla relazione oggi più tesa con gli Stati Uniti.
Se confermato dai dati definitivi, commentano i media di Sidney, il risultato delle elezioni australiane va dunque annoverato come un “secondo miracolo al contrario” compiuto da Trump: anche Down Under (Là Sotto), il soprannome della terra dei canguri con riferimento alla sua posizione nell’emisfero meridionale sulle carte geografiche, ha resuscitato i progressisti, neanche una settimana dopo averli aiutati a riprendersi e a vincere in Canada. Non è detto che sia una tendenza valida ovunque: in Gran Bretagna un trumpiano di ferro, Nigel Farage, il populista fautore della Brexit, ha vinto in questi stessi giorni le elezioni amministrative e scommette che nel 2029 diventerà primo ministro. Ma la differenza è che gli avversari di Farage, sia il premier laburista Keir Starmer, sia la leader conservatrice Kemi Badenoch, si sono finora astenuti dal prendere le distanze da Trump, mentre il liberale Mark Carney in Canada e il laburista Albanese in Australia non hanno esitato ad attaccarlo. Per i partiti antisovranisti e antipopulisti, forse sarà questa la formula vincente.
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