Internazionali di Roma, a lezione di saggezza da Rafa e Stefano (Nardi prenda appunti)

Appena strette le mani all’avversario e al giudice di sedia, Rafa s’infila nel tunnel del Centrale per raggiungere gli spogliatoi. L’accompagna una formidabile standing ovation. Nessuna celebrazione a sorpresa, gli altoparlanti non sparano musiche tonitruanti tipo Guerre Stellari o Mission, niente discorsi commossi, figuriamoci se c’è posto per una parata di “personalità”, come è d’uso in queste occasioni. La festa è che non c’è la festa. Perché, spiega Nadal dopo l’eliminazione agli Internazionali d’Italia 2024, “non ho mai detto che questo sarebbe stato il mio ultimo torneo a Roma”.

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L’autoanalisi davanti ai giornalisti è impietosa: “Hubert Hurkacz è stato molto più bravo di me nel secondo set” nonostante “io abbia iniziato bene la partita” combattendo alla pari “nella quasi mezz’ora dei due game d’avvio. Nel primo set il punteggio è dipeso un po’ da come s’è sviluppato il match. Poi ho avuto una pausa e non sono più stato in grado di contenerlo”. Più del 6-1 6-3 patito dalle manone del polacco numero 9 al mondo, il numero 1 per 209 settimane complessive è visibilmente contrariato per il proprio rendimento: “Hubert serviva bene e per me era difficile rispondere con efficacia. Quando servivo io, non gli facevo male né lo costringevo a sbagliare. Questo è tutto. Bisogna accettare la situazione. Punto”. Se l’ultima considerazione è sconsolata (“…mi sentivo più pronto di quanto ho poi fatto vedere sul campo: è una brutta sensazione”), lo sguardo verso il futuro resta limpido e ottimista: sarà quasi certamente nel main draw del Roland Garros a fine mese e poi parteciperà alle Olimpiadi parigine. Su prossimi IBI è ragionieristico: ci sono almeno due probabilità su cento che sia in lizza anche nel 2025. Ai diecimila e passa del Centrale basta per credere davvero di poterlo rivedere qui, a quasi 39 anni, più competitivo e brillante che pria, avrebbe sentenziato il Nerone petroliniano.

Altrettanto limpido e ottimista è lo sguardo di Stefano Napolitano, per la prima volta in carriera al terzo turno di un torneo ATP. A 29 anni compiuti da poco, il biellese è ufficiosamente il numero 125 del ranking mondiale, suo miglior piazzamento di sempre. Se tra un paio di giorni batterà il cileno Nicolas Jarry, che oggi ha avuto la meglio su Matteo Arnaldi (6-2 7-6), salirà a quota 112. E non è detto che la tardiva ascesa verso l’Olimpo tennistico finirà lì: chiunque abbia avuto la fortuna di ascoltare la sua lunga conferenza stampa dopo la vittoria sul cinese Juncheng Shang (6-7 6-1 6-0) ne è più che convinto. Cercatela su YouTube. Stefano ha lavorato, come dicono gli psicanalisti, sui motivi che hanno condizionato la sua carriera. Ha letto libri, parlato con tanti “maestri” (li chiama così), cercato aiuto da chi poteva dargliene. Soprattutto, ha capito che molte delle risposte doveva trovarle da solo. Figlio di un padre ingombrante come Cosimo, ex buon seconda categoria poi organizzatore di tornei Challenger e 250, Stefano non ha un coach semplicemente perché non ne ha bisogno. Centillina quel che ha imparato: racconta che anni fa “Ivan Ljubicic mi disse un paio di cose che mi sono tornate utili oggi nel match con Shang”. Assicura che un libro come “The Biology of Belief” di Bruce H. Lipton (“…che ho letto in inglese”) gli ha insegnato più di tanti allenatori e manager. Ha un approccio olistico alla realtà: un approccio tanto indiano da lasciar pensare non sia un caso che la vittoria che l’ha rilanciato l’abbia ottenuta meno di tre mesi fa in un Challenger a Bangalore.

Trovo un’altra affinità tra Stefano e Rafa, che pure hanno vissuto in contesti tennistici di fatto non comunicanti: entrambi ripetono di voler essere “inspiring” per i giovani, per usare un termine inglese che non ha bisogno di traduzione. Lo spagnolo lo è da molto tempo, arrivando a creare un’accademia della quale i suoi valori sono fondanti (“…vorrei essere ricordato come esempio positivo di rispetto, volontà e buona educazione”). Diamo tempo anche a Stefano, che – da giocatore o da qualcos’altro – di sicuro porterà a termine la missione che s’è assegnato. Intanto, suggerisco, si concentri sul cimento di lunedì.

A Luca Nardi, che compirà 21 anni il 6 agosto, sarebbe troppo chiedere altrettanta maturità. È questione d’età ma anche di punto di partenza: gli agi che garantisce l’appartenenza alla migliore borghesia pesarese sono graditissimi bonus ma potrebbero indurlo a rifuggire dai sacrifici. Ci sono tuttavia casi eclatanti – da Taylor Fritz a Jessica Pegula, da Emma Navarro a Ernst Gulbis – di campioni con alle spalle famiglie abbienti e tuttavia accomunati dalla volontà ferrea di farcela da soli. Stasera l’avversario di Luca è Holger Rune, di qualche mese più anziano e già transitato tra i Top Ten (è stato 4, ora è 13). Nel suo caso ci sono prove molteplici che le qualità tecniche e atletiche sono preponderanti rispetto alla maturità, tutta da conquistare. I due ragazzi, che al momento condividono solo l’instabilità al limite delle porte girevoli in tema di allenatori, s’affrontano per la prima volta in carriera. Il più giovane dei Top 100 italiani (è il numero 70 del ranking live) è potente almeno quanto il danese; gli manca invece l’esperienza necessaria per aggiudicarsi i punti più combattuti o approfittare delle poche ma ghiotte occasioni di strappare un break. Finisce 6-4 6-4, un punteggio che Luca deve considerare come un bicchiere mezzo pieno.

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