Monfils, leggerezza e imprevedibilità anche quando arriva il momento di dire basta col tennis

Ogni volta che in Francia arriva maggio, Yannick Noah deve armarsi di santa pazienza e rispondere a una, dieci, cento telefonate in arrivo dai giornali per un’intervista che è sempre uguale dal 1983, pourqui monsieur, pourquoi? Non c’è un uomo francese che vince uno Slam dai tempi suoi e allora chiamano, chiedono, e lui risponde, racconta, ripete. In quarant’anni sono passati dei purosangue come Henri Leconte e Guy Forget, dei puledri come Nicolas Escudé, Cédric Pioline e Sébastien Grosjean, ma soprattutto è passata la generazione dei Moschettieri: le grandi speranze consegnate a Richard Gasquet e Gilles Simon, a Jo-Wilfried Tsonga e Gaël Monfils.

Una telefonata l’ha fatta pure lui, l’ultimo, ai tre vecchi amici. Uno stava giocando a golf, un altro ai videogame, il terzo era sdraiato sul divano, tutti intenti a far qualcosa di meravigliosamente superfluo nella loro nuova vita senza tennis quando il quarto gli ha detto vi raggiungo, mi ritiro, un anno ancora e smetto. Gaël Monfils ha svegliato la comunità del suo sport con questo video nel quale ci sono la personalità e l’imprevedibilità che ha messo in campo mentre giocava.

Gasquet è stato il rovescio più bello del West. Era finito sulla copertina di una rivista quando aveva appena 10 anni e si è stancato di sognare a 38, dopo 22 anni di professionismo, due semifinali a Wimbledon [2007 e 2015], una a Flushing Meadows [2013], il numero 7 come più alto mai raggiunto. È stato come uno di quei copisti che potevano pareggiare l’arte di Giotto [in questo caso il rovescio di Federer], senza che il suo nome sarà ricordato accanto a Giotto. Tsonga se ne andò tre anni fa facendo piangere Parigi e tutti a casa. All’ultimo cambio di campo, quando era sotto per sei a zero nel tie-break, la folla sul centrale si mise a battere le mani per far durare di più l’ultimo punto della sua carriera. Lui lo giocò singhiozzando e dopo si chinò in ginocchio come in una preghiera posando la testa sulla terra rossa e rialzandosi con una macchia bruna sulla fronte, “come se fosse stato battezzato una seconda volta”, disse in modo memorabile Federico Ferrero in telecronaca. Tsonga mescolava bellezza e crudeltà e tra i Moschettieri è stato il più vicino al titolo, il giorno in cui giocò la finale a Melbourne.

Però Monfils, diamine, Monfils è stato di meno e di più. È stato un paio di volte in semifinale, mai più su del numero 6, ma sempre col sorriso, molto distante dalla figura del campione brontolone sprofondato nei suoi pensieri a fondo campo. È stato Sliderman, come lo chiamavano, un po’ Spiderman e un po’ uno scivolatore sulle linee bianche, uno che batteva le mani al bel punto dell’avversario, che metteva le mani dietro le orecchie per chiedere al pubblico di farsi sentire, uno che non avresti mai immaginato potesse sfasciare una racchetta. Nato a Parigi da madre della Martinica e da padre della Guadalupa, si è sempre considerato figlio dell’educazione caraibica e delle difficoltà della periferia, nel suo caso La Courneuve. Poiché ha passato tutta la sua vita a sorridere, si è portato dietro la nomea di giocatore poco serio, non si allena, va a ballare, fa tardi la notte. Invece voleva solo divertirsi, voleva mostrare come si possa vivere dentro certi meccanismi infernali restando leggeri.

“Credetemi quando dico che non ho alcun rimpianto” sono le parole che ci lascia mentre ci dice che il 2026 sarà il suo ultimo anno sul circuito. Una risposta a quelli che considerano la sua età e quella dei Moschettieri come un periodo di cattiva vendemmia, quando l’uva pigiata non ha dato il vino che aspettavi. A Monfils preme dare un gigantesco appuntamento a tutto il mondo per un tour di saluti. E pazienza se a maggio la Francia continuerà a telefonare a Noah. Fatti loro, fatti vostri.

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