Us Open, così Sinner e Alcaraz costruiscono il loro mito

È un fatto: da maggio, le volte che è capitato che entrambi fossero in tabellone in un torneo, sono puntualmente approdati all’ultimo atto. Così giocheranno a New York la loro quinta finale in 113 giorni: tre le ha vinte Carlos Alcaraz, a Roma, Parigi e Cincinnati, una Jannik Sinner, a Wimbledon. Vedremo chi la spunterà domenica. Tra il 2011 e il 2013 Rafael Nadal e Novak Djokovic si affrontarono sempre e soltanto in finale in undici occasioni, ma talvolta uno dei due era stato fermato da Roger Federer o da qualche underdog in uno dei turni precedenti: il maiorchino, per esempio, fu clamorosamente eliminato da Lukas Rosol nel secondo turno dei Championships. È dunque, quella del murciano e del sudtirolese, una serie che odora di mito.

Nessuno s’offenda nelle vaste schiere dei fedeli del neo-culto sinneriano (del quale il campione di San Candido non ha alcuna responsabilità se non quella di fare meravigliosamente il proprio mestiere) quando dico che, nelle attese di tutti, la partita da non perdere oggi era Alcaraz contro Djokovic. Già nelle analisi della vigilia il match tra l’italiano e il canadese Felix Auger-Aliassime non reggeva il confronto, in termini di fascino e significati, con quella tra il serbo e lo spagnolo. Anzitutto, Djokovic e Alcaraz hanno di recente messo in scena battaglie memorabili negli slam e alle Olimpiadi (semifinale al Roland Garros e finale a Wimbledon nel 2023, finali a Wimbledon e iridata a Parigi nel 2024, quarti di finale agli ultimi Australian Open), creando l’epitome di una rivalità generazionale che porta con sé l’idea di infinito “passaggio di consegne”. Sinner e Auger-Aliassime non possono sfoggiare un comune vissuto agonistico altrettanto mitico.

Poi c’è il richiamo globale, che qualcuno definisce “una faccenda di marketing”. Djokovic, classe 1987, e Alcaraz, 2003, sono i due volti più riconoscibili del tennis mondiale: da un lato il resistente regnante di un passato dato da molti per sepolto, dall’altro il pretendente che per primo ha provato a togliergli lo scettro. Uno schema che funziona anche al di fuori della nicchia del tennis. Jannik, classe 2001, vale come Carlitos, certo, ma nel connubio con Felix, 2000, subisce una riduzione dell’appeal.

Infine, le caratteristiche di Djokovic (resistenza, precisione, solidità mentale) e quelle di Alcaraz (creatività, varietà, forza) generano di solito match con ritmo altissimo, punti spettacolari e suspense. Gli altri due finalisti propongono un tennis potente e pulito, ma la combinazione dei loro stili – come definirli? – più compassati non assicura lo stesso mix di dramma, estetica e tensione epica.

Ebbene, ci sbagliavamo. Perché accade che, una volta messi in campo i giocatori, fatto il sorteggio, scattate le foto insieme al bambino che lancia la moneta, finiti i cinque minuti di riscaldamento, i match vanno come nessuno può prevedere: “Basta un niente…”, come ripete ossessivamente la Volpe ex Carota.

Nel pomeriggio giocano il serbo e il murciano. Il primo set, che secondo chiunque Nole deve fare suo per avere qualche chance di passare il turno, va invece a Carlos, che mette a segno un break immediatamente, a freddo, e poi lo difende senza bisogno di fuochi d’artificio: 6-4. Nel secondo parziale Nole accelera, stavolta è lui togliere il servizio all’avversario alla prima occasione, nel secondo game. È il momento migliore del serbo, che varia il ritmo, non dà punti di riferimento, va spesso a rete. È come se capisse in anticipo dove giocherà lo spagnolo. Soprattutto, cerca di accorciare gli scambi e di servire forte e carico. Nel quinto game sono però due suoi rovesci sbagliati e una prodezza dello spagnolo a determinare il controbreak. (Alla fine del match scopriremo che il numero di errori non forzati nel match è stato di 30 ciascuno, ma Alcaraz ha piazzato il doppio del vincenti, 31 contro 15). Nole prenota l’intervento del fisio a fine set (in conferenza stampa dirà che non stava bene già prima della partita) e intanto si gioca tutto nel tie break. Sotto 4-1, recupera due minibreak. Sul 5-4 Carlos serve a 141 miglia orarie e poi chiude (7-4), dopo 114 minuti di gioco non così stellare. La restante manciata di minuti del terzo set serve infatti solo a timbrare la sua vittoria con un 6-2 senza storia. Un’ovazione accompagna il vecchio re all’uscita dall’Arthur Ashe: mai era stato così applaudito in occasione delle sue quattro vittorie americane.

Nella sessione serale tocca a Jannik e Felix mostrare al pubblico newyorkese, alle audience globali e ai media come il loro gioco non abbia da invidiare alcunché a quello espresso qualche ora prima da Carlos e Nole. Danno spettacolo con scambi che mi sembrano, a velocità decuplicata, le traiettorie di Pong, videogioco Atari di cinquant’anni fa, due barre verticali per racchette e un quadratino che rimbalzava come una pallina da tennis. Liberato da responsabilità e pressioni, Auger-Aliassime dà parecchio filo da torcere al capofila Atp, che deve alzare il livello del proprio gioco, soprattutto in fatto di velocità d’esecuzione, per prevalere nei game ai vantaggi. Il set dura 41 minuti e il punteggio, 6-1, rappresenta con fedeltà quanto visto in campo eppure risulta eccessivamente punitivo per il canadese. Dovrebbe suonare un campanello d’allarme.

La seconda frazione è scandita dalla diversa efficacia dei servizi, con il ragazzo di Montreal che estrae dalla bisaccia il meglio del proprio repertorio di specialità. Mentre il pubblico s’attende comunque un break a favore dell’italiano, è Felix a ottenerlo nell’ottavo gioco quand’è avanti 3-4. Poi va a servire in trance agonistica e chiude sul 3-6. Tutto molto rapido e inatteso. Al termine del set, Jannik chiama il medical time-out, forse per un problema all’anca, più probabilmente per un reset mentale. Al rientro, appare rimesso a nuovo. Gli scambi tornano a essere velocissimi. L’equilibrio s’interrompe sul 3-2 a favore di Sinner. Auger-Aliassime perde fiducia e inanella alcuni errori di valutazione incomprensibili, come quando giudica fuori un raggiungibile passante dell’avversario ampiamente in campo. Senza correre più rischi, l’allievo di Vagnozzi e Cahill incassa un rincuorante 6-3.

È il canadese a lasciare lungamente il rettangolo di gioco prima del quarto set. L’aria dello spogliatoio fa bene anche a lui. La battaglia diventa dura e faticosa. Nel quarto game l’italiano deve rintuzzare tre occasioni di break per Felix ma, subito dopo, è lui a sfruttare l’unica chance a favore. La difesa del break è tutt’altro che facile, servono umiltà e tenacia: qualità che non difettano a Sinner. Auger-Aliassime si produce in alcuni pezzi di bravura, in particolare quando azzarda il serve & volley, ma non gli basta: deve cedere per 6-4 il parziale e il match. Chi a New York ha pagato il biglietto serale o in Italia ha fatto l’alba davanti alla tv per vedere Jannik vs. Felix ha ogni motivo per ritenersi soddisfatto.

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