Wimbledon, anche se sconfitti Brooksby e Tarvet meritano il proscenio
Jenson Brooksby ha sempre dato l’impressione di avere qualcosa che lo frenasse o lo agitasse: un tarlo nascosto, un problema non esplicitato. Lo ricordo a Washington, nel 2021, in semifinale contro Jannik Sinner: i colpi squadrati, le movenze spigolose, il gioco imperscrutabile, le reazioni eccessive, gli atteggiamenti talvolta urticanti. Perse 7-6 6-1. La differenza tra lui e gli altri è sempre stata poco visibile a occhio nudo. Per questo la sua storia — emersa a livello globale solo con il titolo ATP conquistato pochi mesi fa a Houston — è tra le più inspiring del tennis contemporaneo. Parla di battaglie silenziose e di autoconsapevolezza.
Bisogna risalire a vicende di oltre vent’anni fa per capire. Jenson nasce il 26 ottobre 2000 a Sacramento, in California. Glen e Tania, i genitori, lo portano da medici specializzati quando si rendono conto che non comincia a parlare e ha difficoltà a relazionarsi con l’ambiente circostante. La diagnosi è quella di un serio disturbo dello spettro autistico. Inizia così un percorso intensivo di oltre 40 ore settimanali di ABA — analisi comportamentale applicata — che dovrebbe permettergli di imparare a comunicare e socializzare. Ma la sua infanzia resta segnata dalla solitudine. “Mi era difficile fare amicizia. Ero diverso, e lo sentivo”, dirà anni dopo in un’intervista all’Associated Press. La sua terapeuta, Michelle Wagner, conferma che da piccolo era considerato “un caso grave”, mentre oggi “rientra in una forma molto lieve dello spettro”. L’outing pubblico di Jenson sull’autismo, avvenuto lo scorso dicembre, ha aperto un dibattito in un mondo — quello del tennis — poco abituato a parlare di neurodivergenza.
Un altro passo indietro. Quando lo portano su un campo da tennis, a 4 anni, Jenson scopre una connessione speciale con racchetta e palline. All’età in cui altri imparano a parlare e a giocare, lui impara a colpire. Da lì, tutto cambia. Nel tennis, Jenson trova una struttura prevedibile, una comfort zone dove ogni punto è una sequenza logica. L’autismo diventa — parole sue — un superpotere: “Mi permette di isolare i dettagli importanti nei momenti critici. Di rimanere lucido quando altri vanno nel panico.” Il suo primo coach è Joseph Gilbert, che dirige una scuola molto rinomata a Sacramento. Lo seguirà per anni. Nel 2018, al termine di un percorso senza particolari acuti da junior, approda comunque alla semifinale degli US Open, dove viene eliminato da Lorenzo Musetti. L’anno successivo raggiunge la sua prima finale da professionista, a Bakersfield, non lontano da casa. Nei quattro anni successivi — complici il Covid e vari stop — alterna ottime prestazioni a sconfitte frustranti. Il suo best ranking arriva nel giugno 2022, quando tocca il numero 33 ATP. Perde tre finali ATP 250 contro avversari tosti come Kevin Anderson, Reilly Opelka e Alex de Minaur. Poi iniziano i veri problemi.
Nel luglio 2023, mentre è fermo per due operazioni ai polsi, arriva la mazzata: tre “whereabouts failures” in dodici mesi, ovvero tre mancate reperibilità per i controlli antidoping fuori competizione programmati. Nessuna positività, ma tre assenze ingiustificate. L’ITIA (il tribunale del tennis) lo squalifica per 18 mesi. Brooksby non ci sta. Appella la decisione e il TAS riduce la pena a 13 mesi, accogliendo in parte la tesi difensiva: uno dei test aveva una motivazione plausibile e la sua condizione neurologica poteva aver influito sulle comunicazioni con gli ispettori.
Il tennista californiano sparisce dai radar. “È stato il momento più difficile della mia vita. Il rischio era mollare tutto”, confesserà. Non solo è fermo per la squalifica, ma deve anche affrontare la riabilitazione dopo due interventi. Non si arrende. Rientra agli Australian Open, nel gennaio scorso, con classifica protetta e, spaesato, viene spazzato via da Taylor Fritz in tre set. Ma qualcuno intravede qualcosa: la sua voglia di tornare competitivo.
Poche settimane dopo, batte Coleman Wong nel Challenger di San Diego. Non è una vittoria importante per il ranking, ma lo è per la sua fiducia. Poi vola a Indian Wells: sconfigge Felix Auger-Aliassime prima di arrendersi a Jack Draper. La svolta arriva in aprile, all’ATP 250 di Houston, su una terra battuta anomala. Riceve una wild card per le qualificazioni, salva cinque match point in tre partite, entra in tabellone, supera Kudla, Tabilo, Etcheverry, Thompson e infine Frances Tiafoe con un eloquente 6 4 6 2. È il suo primo titolo ATP. Dal 2000, nessuno aveva mai vinto un torneo di questo livello partendo da un ranking oltre il 500: lui era 507. “Ho attraversato l’inferno. Houston è il mio paradiso personale”, dirà in conferenza. La vittoria lo porta al numero 172 del mondo. L’eco dell’impresa fa il giro del mondo.
La scorsa settimana Brooksby arriva da lucky loser fino alla finale sull’erba di Eastbourne. Perde ancora contro Fritz, ma dimostra che Houston non è stato un colpo di fortuna. Sale al numero 101. Il suo tennis, fatto di variazioni, difese sgraziate ma efficaci, rovesci taglienti e cambi di ritmo improvvisi, si dimostra ancora redditizio. Ma ciò che colpisce di più è la sua trasformazione emotiva. Brooksby, un tempo noto per reazioni scomposte e gesti discutibili, è oggi più composto. Il lavoro terapeutico, la squalifica, la maturazione personale: tutto lo ha cambiato. La sua non è solo la storia di un tennista che ha vinto un torneo dopo 13 mesi di assenza. È il racconto di un’identità che ha smesso di nascondersi. È il viaggio di chi ha trasformato la propria fragilità in forza. Il tennis, come la vita, non segue sempre il copione del ranking o del talento.
Jenson non è tornato per essere uno qualunque. È tornato per essere finalmente se stesso. Lo dimostra anche oggi, sul campo 12, uno dei più scenografici di Wimbledon. Affronta Joao Fonseca, enfant prodige brasiliano, tra i più promettenti della leva 2005–2006. Il match è durissimo: l’americano oppone resistenza alle accelerazioni del brasiliano. Gli scambi sono pesanti e interminabili. Di Fonseca si parla da mesi come del possibile terzo incomodo tra Sinner e Alcaraz. Di Brooksby ritroviamo l’intelligenza e la tenacia di sempre. Jenson si carica parlando con se stesso a ogni cambio campo; Joao si nutre del sostegno della torcida. Lottano per tre ore e un quarto. Alla fine, Fonseca vince 6-4 5-7 6-2 6-4. L’americano lascia Wimbledon da numero 95 ATP e con la certezza di un futuro ormai avviato.
Ma oggi c’è anche un altro nome che merita attenzione: Oliver Tarvet classe 2003, dall’Hertfordshire. Ha conquistato il pubblico della Centre Court nel match contro Alcaraz. Cresciuto nel sistema tennistico britannico, ha scelto il college americano iscrivendosi all’University of San Diego. Titolare fisso nel campionato NCAA, nel 2024 ha vinto due titoli All-American, in singolo e doppio, impresa rara in quel circuito. Il debutto da professionista risale a pochi giorni fa, quando, grazie a una wild card, partecipa alle qualificazioni di Wimbledon da numero 719 ATP (oggi è ufficiosamente tra i primi 400). Elimina giocatori come Terence Atmane e Alexander Blockx, batte lo svizzero Leandro Riedi al primo turno del main draw, e oggi, contro Carlitos, mostra al grande pubblico un tennis potente e vario, con un formidabile tempo sulla palla e una determinazione da veterano. Il punteggio — 6-1 6-4 6-4 — mente: Alcaraz avrebbe potuto perdere almeno un set. Tranquilli, di Ollie sentiremo parlare. Difficilmente giocherà un’altra stagione a San Diego.
E gli italiani? Breve riassunto per i distratti. Quattro azzurri in campo, tre sorrisi (o quasi) e un pugno di rimpianti per Jasmine Paolini. La numero uno azzurra si smarrisce nel momento peggiore: venti minuti di blackout e Kamilla Rakhimova, russa di medio cabotaggio, la punisce senza pietà. Due break non recuperati e un arrivederci amaro: 6-4 4-6 4-6. Jasmine rischia di uscire dalla Top Ten. E non è solo una questione di classifica: il punto è che, stavolta, la versione glaciale di sé stessa ha preso il sopravvento.
Mattia Bellucci è invece il volto nuovo che in questo contesto si trova a pieno agio. Sul campo 12 fa la voce grossa contro Jiri Lehecka, testa di serie numero 23, e lo zittisce con un tennis pieno di variazioni e coraggio. È l’unico lombardo in tabellone, gioca come se fosse a casa: 7-6 6-1 7-5. Il talento c’è, il carattere pure: Fabio Chiappini, il suo coach, può sorridere largo in attesa del confronto al terzo turno contro Cameron Norrie.
Luciano Darderi, nel tardo pomeriggio, conduce con eleganza la sua partita contro Arthur Fery, britannico nato in Francia e studente modello a Stanford. L’italo-argentino gioca con intelligenza e pazienza: 6-4 6-2, prima che l’arbitro sospenda tutto nonostante ci sia ancora luce. Wimbledon è anche questo: l’ora legale dell’erba.
Infine, nel doppio, la ditta Bolelli–Vavassori parte con qualche intoppo, ma non si scompone. Due tie-break tirati, due tie-break portati a casa contro Behar e Vliegen. Tutto calcolato, niente panico. Passaggio del turno meritato e tabellone che si fa interessante.
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