Clementi: “Papa Francesco nel carcere di Regina Coeli tra i dimenticati”
«Era molto sofferente. Eppure ha sorriso a ciascuno dei detenuti, con la carrozzina è voluto passare in mezzo a loro. Si vedeva che quella visita era un ultimo segno, un commiato a loro e un messaggio per noi, per tutti».
Claudia Clementi è la direttrice del carcere di Regina Coeli. Ed è stata lei ad accogliere Francesco, di giovedì santo, nell’ultima visita compiuta fuori del Vaticano da un pontefice ormai consapevole di vivere i suoi ultimi giorni. È il Papa che a dicembre aveva varcato Rebibbia per il via (laico) all’Anno Santo: un penitenziario che diventa vera chiesa, luogo di offerta ma anche di speranza.
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Direttrice Clementi, lei c’era a Rebibbia, quattro mesi fa?
«Sì, non l’avevo mai visto da vicino. Mi avvicinai, gli affidai l’auspicio: Santità, l’aspetto a Regina Coeli»
E si aspettava di rivederlo, giovedì scorso?
«No. È stata una visita totalmente a sorpresa, organizzata in pochissime ore. Pensi che siamo stati avvertiti direttamente dal Vaticano solo mercoledì. Con la raccomandazione che tutto sarebbe stato confermato di giovedì mattina … Si capiva che fisicamente doveva costargli, ma lui voleva tornare in carcere in mezzo ai detenuti. A ogni costo».
Francesco voleva stare da solo con loro: né ministri né politici.
«Ci era stato comunicato il carattere privato, quasi intimo, di quella visita. Credo che la scelta di quel giorno corrispondesse al suo desiderio, messo in pratica negli anni precedenti, di celebrare la lavanda dei piedi proprio tra i detenuti. Stavolta le sue condizioni non lo consentivano ma era come se lo avesse fatto».
Come lo ha trovato?
«Molto provato. Non aveva quasi voce, solo un filo esilissimo. Riusciva a dire poche parole. Eppure, allo stesso tempo, emanava una forza, una volontà estrema di essere in quel luogo, e soprattutto con chi è privato della libertà. Il suo corpo come significativa testimonianza, senza bisogno di parole».
E le persone detenute?
«In settanta hanno partecipato al rito nella Rotonda, tutti scelti tra le varie sezioni. Si è recitato il padre nostro, lui ha impartito la benedizione. Mi ha colpito che ci avesse chiesto di lasciare lo spazio tra le varie file di sedie, voleva passare con la carrozzina, al loro fianco. Ognuno ha voluto omaggiarlo, con un pensiero, un oggettino. Lui ha donato loro un rosario, sorrideva, e poi passava quei foglietti ai collaboratori, un cenno per dire: conserviamo tutto».
E una volta fuori ha detto: “Ogni volta che vengo in carcere, mi chiedo: perché loro e non io”.
«L’ho letta dopo, quella frase. Che dice tutto, o molto, del pontificato. Gli ultimi, i meno considerati in assoluto, sono i primi a cui dava importanza, il suo centro».
Eppure i suoi appelli, così come quelli del presidente Mattarella, per il destino dei detenuti, per la dignità delle loro condizioni, sembrano tutti caduti nel vuoto.
«La sua parola e i suoi gesti ci interpellano tutti, questo è sicuro. Ci lascia un’eredità preziosa e una grande responsabilità».
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