Laterza: “Woke non è un insulto, la destra la smetta con le etichette”
Giuseppe Laterza, presidente della omonima casa editrice, accetta di ragionare sulla cultura di destra dopo la due giorni dedicata al tema da Fratelli d’Italia a Firenze. In questa sorta di stati generali della cultura meloniani, abbiamo sentito soprattutto attacchi alla cosiddetta “deriva woke”. Colpisce nel momento in cui proprio da sinistra – penso a filosofi come David Chandler o Susan Neiman – vengono le critiche più acute al wokismo.
La destra si scaglia contro un feticcio che non esiste più?
“Le etichette si adattano bene al supermercato ma non alla politica. Che vuol dire sinistra woke? Woke vuol dire sveglia, l’idea è quella di essere consapevoli – svegli, appunto – rispetto alle discriminazioni. Io non ci trovo niente di male, anzi spero che anche i politici di destra sappiano che ci sono nel mondo categorie discriminate. Quando li sento parlare di disabili, ad esempio, li sento molto attenti. Mi sembrano meno attenti quando si parla di discriminazioni nei confronti dei giovani africani che scappano da guerre e carestie”.
Non ci sono stati eccessi woke in questi anni?
“A volte c’è stato un eccesso di perbenismo in alcune università, c’è stato chi voleva mettere le braghe a Shakespeare, cancellare alcuni testi classici perché sessisti. Bisogna sapere che sono parte di un’epoca e rispettarla come tale. Però non ci vedo niente di male nella consapevolezza “woke” e non mi pare che sia un bene mettere etichette. Se si vuole discutere seriamente bisogna invece distinguere”.
Distinguere tra diverse destre e diverse sinistre?
“Sì, ci sono diverse destre. Ce n’è una conservatrice, che vuole mantenere l’ordine internazionale, la globalizzazione, e il liberismo iniziato da due persone di destra, la Thatcher e Reagan. E poi c’è una destra eversiva, che è quella di Trump. C’è una destra globalizzata e una destra sovranista. Spesso oggi la lotta è tra due destre piuttosto che contro una sinistra che, mi pare, fa molta fatica a costruire un’ideologia nuova”.
Giorgia Meloni a quale destra appartiene?
“Lo spiega lei stessa nel suo libro “Io sono Giorgia”. Lei appartiene a quella destra che pensa che la globalizzazione sia un male, che porti all’omologazione delle culture e delle identità”.
E la sinistra?
“Anche lei si divide. Una parte rimpiange il passato, è una sinistra che pensa ancora di poter leggere il mondo con gli occhiali di Marx, e c’è una parte di sinistra che ha largamente aderito all’ideologia della globalizzazione. È quella che i sovranisti attaccano, ma così facendo criticano un’ideologia che è nata a destra con Milton Friedman, con Robert Nozick, il filosofo dello Stato minimo, con Friedrich von Hayek. La sinistra, una parte almeno, vi ha solo aderito in seguito”.
Abbandonata la globalizzazione e il liberismo, qual è il tema forte della destra oggi?
“Non penso che il focus sia l’economia. La cultura di destra ha come tema centrale l’identità, da tutelare attraverso il ritorno alle comunità, alle radici”.
Non va bene?
“Come ha spiegato Andrea Giardina in un bellissimo libro intitolato “Storia mondiale dell’Italia”, la metafora delle radici ha una possibile deriva razzista. L’albero è fatto dalle radici, ma anche dai rami e dalle foglie. Un altro libro che fa riflettere è quello di Massimo Montanari sul mito delle origini, “breve storia degli spaghetti al pomodoro”: il cibo più italiano di tutti si realizza con la pasta, che viene fatta essiccare dagli arabi nel XII secolo in Sicilia e con il pomodoro che viene dall’America. Quindi le radici spiegano solo una piccola parte”.
La destra ce l’ha con la diversità?
“La considera un problema. Prendiamo l’immigrazione. L’arrivo di tanti immigrati è visto come un problema economico – “ci rubano il lavoro e il welfare” – e come una minaccia culturale. Cos’è l’Italia se, accanto al negozio di tortellini, mi apre un kebab? È chiaro che in parte è vero che far convivere culture diverse non è un pranzo di gala, però è anche vero che c’è una grande opportunità nella diversità. E, per poterla cogliere, ci vuole più cultura. Prendiamo l’esempio di Brescia, la città italiana con il più alto tasso di immigrazione, dove gli immigrati sono bene integrati. Perché? Lì c’è una cultura cattolica progressista, aperta, inclusiva, è la città di Mino Martinazzoli, c’è un cattolicesimo illuminato…”.
Il ministro Giuli esalta Gentile, la destra fa le mostre sul Futurismo, riscopre il Vittoriale e D’Annunzio. Possibile che FdI, quando parla di cultura, non riesca a uscire dal Ventennio? Non c’è una cultura di destra che guarda in avanti?
“Penso che in Italia ci sia una cultura di destra liberale che, restando al Novecento, parte da Benedetto Croce e arriva fino a Giovanni Sartori, un intellettuale di destra anche se antiberlusconiano. La destra anche in Italia è molto diversificata. Mio padre ha pubblicato i libri di Rosario Romeo, uno storico di destra che scriveva sul Giornale di Montanelli”.
Ci sarebbero quindi i riferimenti per andare oltre Gentile e Bottai?
“Penso di sì. Meloni nel suo libro cita come cantanti preferiti Guccini e De André, cita Gramsci accanto a Tolkien, cita un filosofo conservatore tradizionale come Roger Scruton”.
Quindi il problema qual è?
“Non è tanto andare a cercare nel passato, questo è un errore. Il passato ti può dare ispirazione ma i tempi che viviamo richiedono idee nuove, come quelle contenute nel libro di Daniel Chandler che abbiamo appena pubblicato (Liberi e uguali, ndr)”.
Invece è come se la destra al governo, invece di cercare idee nuove, fosse impegnata nella sua guerra contro una presunta egemonia culturale che non esiste più. Giuli a Firenze ha detto che alla sinistra sono rimasti solo i comici…
“E’ un accorciamento di visuale per cui, alla fine, si arriva solo alle battute con cui non si risolve nulla o alla denigrazione dell’avversario. Comici? Uno potrebbe ribattere che in questi mesi quasi tutti gli attori di Hollywood si sono schierati contro Trump. Meryl Streep o Robert De Niro sono comici? Risolvere la questione con battute può funzionare in un talk show, non se ci si vuole misurare con la cultura in senso ampio”.
Fosse andato a Firenze cosa avrebbe chiesto al ministro Giuli?
“Una piccola, grande, idea rivoluzionaria. Se è d’accordo con l’istituzione della figura del bibliotecario scolastico, che esiste in tutti i Paesi più avanzati d’Europa e che noi non abbiamo. Sarebbe un vero avanzamento culturale, né di destra né di sinistra. A scuola inizia la vera crescita culturale e si acquisiscono gli strumenti per orientarsi in un mondo complicato senza averne paura”.
Abbiamo detto molto della destra, ma la sinistra oggi è adeguata ai nuovi tempi?
“La sinistra, una parte di essa, ha a sua volta un problema nella sua cultura. Prendiamo il ’68, che è stato un grande fenomeno di cambiamento e di trasformazione, ma ha lasciato una deriva, quella di negare la responsabilità individuale. Se un immigrato commette un crimine è un delinquente, anche se è immigrato. Molte amministrazioni di sinistra, molti sindaci, sono in difficoltà perché c’è una cattiva cultura di sinistra che dice invece “è un immigrato, bisogna capirlo”. Bisogna pure capirlo, ma se commette un crimine va perseguito. La destra cavalca questo concetto di responsabilità individuale in maniera spregiudicata, ma la sinistra finora ha fallito nella sua risposta al problema della sicurezza”.
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