Liberazione, il passo avanti di Meloni: “I nostri valori democratici negati dal fascismo”
Un passettino alla volta, dai che ci arriva. Giorgia Meloni e il fascismo, come una saga Netflix dalle numerose stagioni, nell’ultima puntata arriva a una piccola svolta. Per la prima volta compare il grande assente — «il regime fascista» — in una dichiarazione ufficiale della premier sul 25 aprile. E dunque, scrive Meloni, «in questa giornata, la Nazione onora la sua ritrovata libertà e riafferma la centralità di quei valori democratici che il regime fascista aveva negato e che da settantasette anni sono incisi nella Costituzione repubblicana». E per strafare, aggiunge l’impegno «affinché questa ricorrenza possa diventare sempre di più un momento di concordia nazionale». Anche meno, come dicono oggi i teenager.
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E comunque, a voler spaccare il capello, l’analisi tricologica delle frasi di Meloni sulla vexata quaestio dimostra quanto meno un percorso, una parvenza di evoluzione. Un lento, lentissimo, quasi impercettibile slittamento semantico. Dall’applauso alla timida presa di distanza, dalla critica fino al fischio. Dal Mussolini «buon politico», al Duce che «ha fatto tanti errori», fino al «regime» odierno. Manca sempre l’elogio dell’antifascismo, ma quello, giurò una volta la non ancora premier «non lo farò mai». Se proprio volete Meloni antifascista e non potete aspettare i prossimi anniversari, aprite i social: da ieri è virale un video in cui la premier fa un discorso che nemmeno Mattarella. È realizzato con l’intelligenza artificiale dal videoblogger Grande Flagello, basta accontentarsi.
Tuttavia, gli indizi che qualcosa a destra stia cambiando si stanno facendo troppo numerosi per essere ignorati. Ignazio La Russa, ad esempio. Dimenticate un momento il busto del Duce e le frasi sulla «banda musicale di semipensionati» SS di via Rasella. Nella solennità dell’aula di Palazzo Madama, il presidente del Senato ha detto cose importanti. E ha ricordato il congresso di An a Fiuggi, l’addio alla “casa del padre”: «Leggo una parte di un documento, che per me fu importante nella mia vita, scritto a Fiuggi con grande sincerità e grande passione, dove senza reticenze affermavamo che l’antifascismo fu il momento storicamente essenziale per il ritorno dei valori democratici che il fascismo aveva conculcato».
Il ricordo del Parlamento: i banchi della destra restano vuoti
Non basta? Dimenticate i tatuaggi osco-umbri di Alessandro Giuli. Ieri il ministro della Cultura ha mantenuto la promessa dello stanziamento di 6 milioni e mezzo di euro per la realizzazione del museo nazionale della Resistenza a Milano. Soldi veri, altro che inchiostro sottopelle. Mentre Giuli staccava assegni, a Porta San Paolo, il luogo più importante della Resistenza romana, una delegazione di Fratelli d’Italia formata dal capogruppo Lucio Malan con Antonella Zedda e Ester Mieli rendeva omaggio ai combattenti della brigata ebraica. Solo a loro e non agli altri partigiani? Intanto è qualcosa.
In questa raccolta di briciole, come Pollicino, ci si imbatte anche in un articolo non banale pubblicato sul Secolo d’Italia, l’organo ufficiale di FdI (e del Msi). Lo firma Carmelo Briguglio e prende le mosse dalla rivalutazione di Enrico Mattei fatta da Meloni che al partigiano bianco ha intestato il piano di investimenti con i Paesi africani. Quel piano, fa notare Briguglio, «rappresenta un’evoluzione nella cultura politica della destra italiana; un passo avanti importante rispetto alla sua tradizionale rappresentazione politico-simbolica e rispetto alla stessa svolta di Fiuggi: il distacco dalla “ideologia coloniale”, dalla sua suggestione che ha popolato l’immaginario della destra post-fascista». Detta in altre parole, gli africani come partner alla pari, non più come “faccette nere” da civilizzare. E così, nel grande frullatore della destra post-fascista, entra anche il presidente dell’Eni, insieme a Dante, a Roger Scruton, a Gramsci. Tutto per dimostrare che la destra italiana pre-esiste al fascismo, lo attraversa ma poi lo supera.
Di questa micro-evoluzione meloniana ieri si sono accorti in pochi. Ma alcuni l’hanno notata. Il dem Walter Verini, che magari si aspettava di più: «Bene le parole della Meloni, ma perché tanto imbarazzo, tanti freni a mano tirati?». Carlo Calenda, che le ha battuto le mani: «Dichiarazione inequivocabile e appropriata. Ciò va riconosciuto per ricostruire un clima di confronto, anche duro, ma non di sterile scontro settario».
Ci sarebbe ancora quel piccolo dettaglio. Un’inezia. Una fiammella, che ancora arde nel simbolo di FdI. La fiamma eterna di M. Enzo Maraio, segretario dei socialisti, è l’unico a notarlo: «La Meloni ha il dovere di spegnerla. Quel simbolo è incompatibile con le libertà». Chissà che il prossimo 25 aprile non porti consiglio.
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