Schlein: “Meloni si può battere ma bisogna restare uniti. A destra resa dei conti ora vogliamo l’Abruzzo”

ROMA «È stata davvero dura, non avevo certezze nemmeno io stavolta», sospira di sollievo Elly Schlein, ripensando ai tormenti della scorsa notte, lo spoglio a rilento, il testa a testa fino all’ultimo voto.

Era convinta di perdere?

«Sapevo che ce la potevamo giocare perché la campagna di Alessandra Todde era andata in crescendo, specie nella settimana prima del voto avevo notato un cambiamento di clima e nutrivo la speranza di una risalita, però qualche timore restava. Era dal 2015 che non strappavamo una regione alla destra. Nove anni, un’eternità. Dalla Sardegna è arrivato un bel segnale: è la nostra prima reconquista e non sarà l’ultima, questo è il mio messaggio per Giorgia Meloni».

Nel day after più felice del suo anno uno da segretaria, la leader del Pd saltella di tv in tv, si gode il sapore della vittoria e guarda già al futuro.

Cosa vede, intanto?

«La sfida in Abruzzo, dove il centrosinistra stavolta al completo ci può regalare un’altra sorpresa. Ma anche la costruzione del campo dell’alternativa, a cui lavoro sin dal principio con spirito testardamente unitario. La vittoria di domenica dimostra due cose: che la premier non è imbattibile e che se stiamo insieme tutto diventa possibile».

A chi “parla” il voto dell’isola?

«Innanzitutto ai sardi, una comunità orgogliosa che ha voluto riprendersi il futuro dopo aver sperimentato sulla propria pelle il fallimento delle destre: hanno lasciato la sanità al collasso, ridotto le opportunità per i giovani, usato poco e male le risorse del Pnrr. È questa la questione centrale: è una bocciatura delle forze di governo. Poi, però, è anche la vittoria della persona giusta: Todde ha saputo tenere insieme una coalizione tra diversi che ogni giorno si è unita sempre di più. Ecco, a dirla tutta è stato un meraviglioso gioco di squadra. E io sono doppiamente contenta perché il Pd ha fatto così bene da diventare il primo partito».

Renzi però vi accusa di esservi “grillizzati”, d’aver ceduto ai 5S su tutta linea, candidata compresa.

«Gli elettori hanno capito quel che volevamo fare: costruire insieme agli alleati, con umiltà e generosità, un progetto serio attorno a una donna capace e competente. È il metodo di lavoro che alla fine ci ha premiato e che a me piacerebbe replicare, da qui in avanti. Il sorpasso del Pd su FdI mi pare la migliore risposta a qualsiasi polemica di questo tipo».

Dalla Sardegna può partire la riscossa del campo largo?

«Di sicuro il risultato dimostra che se siamo uniti la destra si può battere. La Sardegna non è terra da test nazionali, ha una storia e una sua specificità, però qui è successo qualcosa. Non ha perso solo Truzzu, ha perso la premier che ha imposto con arroganza il suo candidato, sfilandolo a Salvini. Sono sbarcati sull’isola in pompa magna, sicuri di vincere, e hanno preso una sberla micidiale, di cui Meloni deve assumersi la piena responsabilità».

In realtà ha già scaricato tutta la colpa sul sindaco di Cagliari.

«Ma sappiamo tutti com’è andata. A un certo punto Meloni ha forzato e ha trascinato pure Salvini nella disfatta. Cosa che ci regala speranza ed entusiasmo per le prossime scadenze, a iniziare dal 10 marzo in Abruzzo, su cui chiameremo alla mobilitazione l’intera coalizione che lì è ancora più ampia — va da Calenda a Fratoianni — per vincere con Luciano d’Amico. Anche qui vale il metodo che ci siamo dati: mettere in campo sui territori non accozzaglie “contro”, ma progetti concreti “per”, ovunque partendo dall’ossessione per la sanità pubblica, per spendere i fondi europei, con una visione opposta al corporativismo della destra».

Per la maggioranza è l’inizio di una frana in grado di far esplodere le fibrillazioni interne al governo?

«Quelle ce le hanno da tempo, la sconfitta non farà che aggravarle e immagino che voleranno gli stracci. Già sulla politica estera c’era stata una certa tensione…».

Anche nel centrosinistra sulla politica estera c’è poco accordo.

«Ma al governo ci sono loro, non noi. Ed è intollerabile che l’Italia abbia un vicepremier così ambiguo e schierato a difesa di Putin. Così si mina il posizionamento del Paese sulla scena internazionale».

Dopodiché le divergenze fra Pd, 5S, Azione e Avs sono diverse: per stringere un’alleanza in grado di scalare Palazzo Chigi occorre appianarle, come si fa?

«Restando ostinatamente unitari per costruire un progetto solido sui temi, attorno a candidati credibili. Su alcune grandi questioni abbiamo già cominciato a lavorare insieme: salario minimo, sanità pubblica, salvataggio del Pnrr, congedo paritario, politiche industriali, sulle quali è partito un confronto anche con Calenda. Punti su cui iniziare a delineare la nostra visione di Paese. Trovare convergenze senza perdere la coerenza è possibile e necessario».

Conte però ha già messo le mani avanti: ha detto che serve “un campo giusto”, non largo.

«È un dibattito che i cittadini non capiscono. Abbiamo dimostrato che l’alternativa vince laddove, ripeto, c’è una proposta comune, seria e credibile. È una responsabilità che devono sentire tutti, non solo il Pd».

Per evitare di litigare su chi dovrà guidare la coalizione serve un federatore terzo?

«Io faccio politica, non fantapolitica. Oggi la priorità è unire le nostre forze sulle grandi questioni del Paese e sono convinta che, se remeremo tutti nella stessa direzione, gli elettori ci daranno fiducia».

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