Alzheimer, l’idea: combattiamolo ripristinando il dialogo interrotto tra i neuroni
Aiutare i neuroni a farsi sentire, riparando le loro vie di comunicazione con le altre cellule cerebrali, affinché il cervello possa prevenire e contenere i danni dell’Alzheimer: si può riassumere così la nuova strategia descritta in uno studio pubblicato su Science Translational Medicine da un gruppo di ricercatori delle Università di Washington a St. Louis, Columbia, Ohio State e New York-Presbyterian.
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L’attività cerebrale è un processo corale, composto da innumerevoli e continue conversazioni, durante la veglia e il sonno, tra cellule diverse come neuroni, astrociti (che supportano e nutrono i neuroni) e cellule della microglia. “Le microglia sono le cellule immunitarie residenti del cervello: agiscono come “pronto intervento” in caso di danni o alterazioni del sistema nervoso centrale. Svolgono un ruolo chiave nell’avviare e regolare la risposta infiammatoria, che può influenzare la funzione e la sopravvivenza dei neuroni”, spiega Laura Piccio, docente di neurologia all’Università di Sydney e coautrice dello studio. “L’attivazione della microglia consente di modulare precocemente i cambiamenti molecolari e cellulari che iniziano anni prima della comparsa dei sintomi dell’Alzheimer e che portano alla neurodegenerazione. Quando la microglia non funziona correttamente — soprattutto negli stadi avanzati della malattia — il danno neuronale può peggiorare e accelerare la progressione dell’Alzheimer”.
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E cosa garantisce un funzionamento ottimale della microglia? La capacità — suggerisce lo studio — di mantenere attivo un dialogo molecolare con i neuroni. Quando questo dialogo si interrompe, le nostre capacità cognitive iniziano a deteriorarsi. Il nuovo studio — condotto su 67 cervelli donati alla ricerca, di cui alcuni colpiti da Alzheimer — mostra che nelle persone affette dalla malattia la comunicazione tra neuroni e microglia è alterata. Inizialmente si osserva un’attivazione eccessiva, seguita da un crollo della comunicazione. Quando compaiono i primi segni visibili dell’Alzheimer, come le placche di beta-amiloide e i grovigli della proteina tau, i neuroni inviano raffiche di segnali alle microglia per attivarle e indurle a rimuovere queste formazioni tossiche.
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“Questa comunicazione avviene tramite due molecole chiave: SEMA6D, prodotta dai neuroni, e TREM2, presente sulla superficie delle microglia, che agisce come recettore del segnale neuronale. Quando entrambe funzionano correttamente, le microglia sono in grado di attivarsi e rimuovere le placche di beta-amiloide. Ma nei pazienti in stadio avanzato questo meccanismo si indebolisce, aggravando il quadro clinico. Abbiamo osservato che, con l’avanzare della malattia, i livelli di SEMA6D vicino alle placche si riducono, e le microglia cessano di attivarsi” spiega a Salute Oscar Harari, docente di Neurologia alla Ohio State University e coautore dello studio, giunto a queste conclusioni grazie a tecniche di trascrittomica spaziale, che permettono di capire dove e quando si attivano i geni in risposta ai segnali cellulari, tracciando con precisione le alterazioni molecolari nel tessuto cerebrale.
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Il contributo più importante dello studio è cambiare il modo in cui pensiamo e affrontiamo l’Alzheimer: “Finora la malattia è stata vista come un problema interno alle cellule, legato a placche e grovigli. Il nostro lavoro propone un punto di vista diverso: l’Alzheimer è anche una malattia della comunicazione intercellulare – spiega Harari – invece di puntare solo su singoli bersagli patologici, come le placche, una strategia più efficace potrebbe essere ripristinare il dialogo tra le cellule cerebrali, seguendo un approccio più sistemico e coordinato”.
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Questo nuovo approccio apre anche alla possibilità di sviluppare farmaci più mirati: “Le “conversazioni tra cellule” sono un bersaglio terapeutico molto promettente, perché coinvolgono proteine di membrana, che sono facilmente accessibili ai farmaci”, sottolinea Harari. Anche se lo studio si è concentrato sull’Alzheimer, offre spunti preziosi anche per altre malattie neurodegenerative: “Il nostro modello può essere applicato anche ad altri disturbi, come il Parkinson – conclude Harari – abbiamo già osservato che anche in quel caso esistono alterazioni nella comunicazione tra cellule cerebrali, sebbene coinvolgano molecole diverse. Questo ci fa pensare che, indagando i guasti nella comunicazione intercellulare, si possano sviluppare nuove strategie farmacologiche anche per queste malattie”. Reinsegnando alle cellule stonate, o senza più voce, a cantare di nuovo in coro con i neuroni.
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