Diabete, oggi giornata mondiale. Numeri in aumento e differenze regionali
Circa 800 milioni di persone nel mondo convivono con il diabete, di tipo 2 prevalentemente, e anche di tipo 1. Ma più della metà dei malati non sta ricevendo alcun trattamento, soprattutto nei paesi a basso e medio reddito. Implacabile il report di Lancet nel sottolineare disparità devastanti tra paesi ricchi e paesi poveri, che sono poi quelli dove la prevalenza di malati cresce a ritmi più veloci. In Europa i malati sono circa 62 milioni, in Italia più di 4 milioni e il diabete è la quarta causa di morte con 80mila morti, mentre si stima che ci sia almeno un milione di persone con diabete non diagnosticato.
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La giornata mondiale
Il 14 novembre del 1991 è stata istituita dalla Federazione Internazionale del Diabete (IDF) e dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, la giornata mondiale del diabete che, nel 2006, è diventata una Giornata ufficiale delle Nazioni Unite. Un’occasione per parlare della malattia, per richiamare l’attenzione sullo stigma che ancora resiste e persiste, sulle difficoltà che affrontano le famiglie dei bambini con diabete di tipo 1 che vanno a scuola, della tecnologia che promette ogni anno di essere a un passo dal pancreas artificiale, ed è in effetti molto vicina. Ma anche delle grandi differenze regionali nel nostro paese nella prescrizione dei presidi, dei farmaci più recenti che hanno dimostrato di avere un ruolo positivo nella prevenzione delle malattie cardiovascolari e dell’insufficienza renale, due tra le più comuni complicanze della malattia. E che però vengono prescritti in modo diversa a secondo del campanile in cui si vive.
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Ma partiamo dei numeri, forniti dagli ultimi dati della Sorveglianza Passi, relativi agli anni 2022-2023: in Italia il 5% degli adulti ha una diagnosi di diabete, l’87% prende farmaci, uno su 3 è seguito da un centro specialistico. Dentro quel 5% ci sono però, come in tutte le medie, differenze notevoli sia per età che per distribuzione geografica. E così il 5% diventa 2 tra gli under50 e sfiora il 9% fra i 50-69enni. Ed è più che triplo, sfiorando il 16% di prevalenza di malattia, tra chi non ha titolo di studio o ha al massimo la licenza elementare. Circa di un terzo dei pazienti è seguito in uno dei 350 centri diabetologici (32%),il 26% dal medico di medicina generale e poco meno del 36% da entrambi.
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Ma quale dovrebbe essere il percorso più corretto? Lo riassume Raffaella Buzzetti, presidente Sid (Società italiana di diabetologia): “Il primo livello è il medico di medicina generale, poi si va dal diabetologo per l’esenzione 013 per diabete e per la terapia iniziale. Poi il paziente viene rimandato al mmg, che deve far effettuare una emoglobina glicata (parametro che registra le medie dei livelli glicemici degli ultimi tre mesi, ndr) ogni sei mesi: se il dato è in peggioramento, rimanda il paziente dal diabetologo, in caso contrario continua la terapia prescritta. Spesso invece arrivano nei centri specialistici pazienti per la prima diagnosi, o arrivano dopo 3-4 mesi spontaneamente, e non dopo sei se sono in peggioramento, affollando i centri specialistici, allungando le liste d’attesa e togliendo spazio ai pazienti più complessi che sono di competenza esclusiva dei centri specialistici, che hanno una équipe multidisciplinare per affrontare la malattia”.
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E poi c’è il problema dei rimborsi. “L’attività ambulatoriale è in netta perdita – riflette Andrea Giaccari, diabetologo alla Fondazione Policlinico Gemelli di Roma – una visita ha un rimborso di 14 euro, che comprende l’attività del medico, dell’infermiere, dell’amministrativo per l’impegnativa. Noi ne facciamo 10-15 a persona per turno, dedicando a ogni visita dai 20-30 minuti. Non si riflette sul fatto che se curo meglio evito gli infarti e le insufficienze renali gravi, che hanno un costo importante per il Servizio sanitario”.
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Prevenire le complicanze dovrebbe essere un mantra di qualunque sensata politica sanitaria. “Anche perché dei 10 miliardi di costi diretti all’anno per diabete – riflette Buzzetti – solo il 5-7% è dovuto ai farmaci, mentre il 90% dei costi è legato ai ricoveri per le complicanze cardiache, renali fino alla dialisi, o piede diabetico. Ogni 7 minuti abbiamo un infarto in un diabetico, il rischio cardiovascolare è 2.5 volte maggiore. Abbiamo farmaci che prevengono il rischio cardiovascolare e renale, come i Glp1 agonisti e gli Sglt2 inibitori, usiamoli. Prevenire le complicanze che hanno il peso economico maggiore della malattia è possibile, fin dalla diagnosi”.
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Il capitolo farmaci, specialmente quelli che vengono usati anche per dimagrire, è un tasto importante. I relativamente nuovi, ma molto performanti farmaci, teoricamente possono essere prescritti in tutte le regioni a tutti i pazienti, con piano terapeutico rilasciato dallo specialista. “Ma ogni singola regione poi impone regole aggiuntive per limitare la spesa e monitorare chi prescrive e chi consuma – racconta Giaccari – che è cosa sacrosanta ma ha rallentato l’utilizzo di farmaci che sono una svolta per la cura del diabete e la prevenzione del rischio cardiovascolare e renale nei pazienti che ne trarrebbero maggior giovamento. Questi farmaci, grazie alla nota 100, possono essere prescritti anche dal medico di medicina generale, che però è direttamente controllato dalla Asl per i tetti di spesa e spesso preferisce rimandare il paziente allo specialista, per fargli assumere la responsabilità della prescrizione. Inoltre farmaci come gli Sglt2 inibitori possono essere prescritti anche da cardiologi e nefrologi proprio per questa loro funzione protettiva, ma questi specialisti possono farlo solo dal sito Aifa, senza poter usare la nota 100. Capisco che lo si faccia per i Glp1 agonisti, che potrebbero essere usati abusivamente per dimagrire, ma per i nefropatici non ha senso. E in più non possiamo più utilizzare semaglutide per nuovi pazienti perché non si trova il dosaggio di ingresso di 0,25 e 0,50 mg ma solo quello da 1 mg, che non può essere usato a inizio terapia ma è solo per il mantenimento”.
La prevenzione che non si fa
E poi c’è il dolentissimo capitolo della prevenzione. “Si va nelle scuole per parlare con i bambini di prevenzione, stili di vita, attività fisica – ragiona Buzzetti – ma è inutile proporre una mela a merenda se poi ci sono le merendine nel distributore in corridoio. Deve cambiare un po’ la politica sanitaria e il concetto di prevenzione. L’altro giorno sul freccia rossa mi hanno dato dei biscottini che sono tra quelli con il più alto indice glicemico in assoluto. E i bambini li hanno mangiati. Ecco forse, dovremmo pensare anche ad evitare di proporre e pubblicizzare prodotti così, come le bevande gassate zuccherate. Forse non avremo mai un aumento di tassazione per questi prodotti, come è successo in Svezia con il risultato di far scendere i consumi, ma almeno evitiamo di proporli attivamente”.
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