Emofilia, nella giornata l’appello: “Colpite anche le donne servono più studi”
Per una donna la scoperta di una malattia emorragica congenita come l’emofilia può essere troppo spesso traumatizzante o addirittura pericolosa per la propria vita. Specialmente in assenza di indizi familiari, che non è poi un’eventualità così remota.
La scoperta della malattia può infatti avvenire in varie fasi della vita di una donna: da ragazzine, a causa di un ciclo mestruale eccezionalmente abbandonante; o al parto, in un momento di grande fragilità, quando un’emorragia consistente può mettere in pericolo la vita stessa della donna; oppure può succedere durante un banale intervento dal dentista… Perché a differenza di quanto avviene negli uomini, nelle donne le malattie emorragiche congenite, le MEC, vengono sostanzialmente trascurate: sottodiagnosticate e, quindi, non adeguatamente trattate.
A chiedere garanzie per una parità di diagnosi e terapie è la FedEmo (Federazione delle Associazioni Emofilici), in occasione di un convegno sull’argomento che si è tenuto a Roma, in vista della Giornata Mondiale dell’Emofilia, che si celebra giovedì 17 aprile.
Le malattie emorragiche
Le malattie emorragiche congenite (MEC) sono un gruppo di malattie rare ereditarie causate dalla carenza quantitativa o qualitativa di uno o più fattori della coagulazione del sangue con conseguente predisposizione al sanguinamento. L’emofilia A (carenza di fattore VIII) e l’emofilia B (carenza di fattore IX) insieme alla malattia di von Willebrand sono i disturbi emorragici congeniti più frequenti per un numero complessivo, secondo gli ultimi dati dell’Istituto superiore di sanità, di oltre 10 mila pazienti in Italia.
Storicamente, si è erroneamente creduto che solo i maschi potessero essere affetti da emofilia A o B e che le femmine fossero solamente portatrici della malattia. Oggi invece sappiamo che, per la casuale inattivazione del cromosoma X, può verificarsi una carenza di fattore VIII o IX in entrambi i generi. “Tanto che circa il 30% delle donne – spiega Cristina Cassone, presidente FedEmo – può essere colpito da queste patologie e le portatrici presentano globalmente un aumentato rischio di sanguinamento, addirittura di tipo emorragico nel 10-15% dei casi”.
I campanelli d’allarme
Un riconoscimento precoce è essenziale per una gestione adeguata e per prevenire conseguenze severe. “Esistono fortunatamente dei campanelli di allarme: durante l’adolescenza – rivela Elvira Grandone, professore associato presso il Dipartimento di scienze Mediche e chirurgiche, Università degli Studi di Foggia – mestruazioni abbondanti, a esempio, possono indicare coagulopatie. Nell’età fertile, sanguinamenti anomali, soprattutto in gravidanza o post-partum, sono segnali importanti. In gravidanza e parto, il rischio di emorragie spontanee o aborti ricorrenti richiede attenzione. In menopausa, infine, il sanguinamento anomalo può suggerire disturbi della coagulazione”.
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I rischi
I rischi di una mancata diagnosi di malattia emorragica congenita sono molteplici e, spesso, richiedono misure “estreme”. “Dalle trasfusioni di globuli rossi e plasma a manovre chirurgiche non necessarie – spiega Giancarlo Castaman, presidente della Società Italiana per lo Studio dell’Emostasi e della Trombosi (SISET) – sono diversi i trattamenti che necessitano le pazienti”. Tuttavia, una diagnosi precoce consente di tenere a bada la malattia, prevenendo le complicazioni più gravi e il ricorso a interventi più invasivi. “Oggi il gold standard della MEC – dichiara Vito Trojano, presidente della Società Italiana di Ginecologia e Ostetricia (SIGO) – è rappresentato dalla profilassi con la somministrazione regolare e a lungo termine di farmaci emostatici in grado di correggere il difetto congenito di coagulazione e quindi prevenire gli episodi emorragici, in particolare per il deficit di fattore X”. Una profilassi adeguata, quindi, consente di prevenire gli effetti più “disastrosi”.
Un test per la diagnosi precoce
Per ottenere una diagnosi precoce, è possibile anche ricorrere a un semplice questionario che può facilitare il sospetto clinico, al fine di escludere o accertare la possibile carenza coagulativa. “Questa attività, sostenuta dall’Associazione Toscana Emofilici, è già realtà da oltre due anni in Regione Toscana – aggiunge Silvia Linari, responsabile sperimentazione clinica SOD Malattie Emorragiche e Coagulative AOU Careggi – dove in alcuni ambulatori ginecologici ospedalieri e consultori extraospedalieri viene proposto alle donne il questionario VWD-test, il cui risultato positivo comporta una richiesta di valutazione ematologica”. Si tratta di un test sviluppato per aiutare i pazienti e i medici a scoprire se il sanguinamento è normale o meno.
L’appello: linee guida più chiare
Ma il primo passo fondamentale per far emergere il sommerso delle donne con MEC è quello di effettuare un censimento puntuale. “Vogliamo dei numeri, soprattutto relativi alle donne manifestano la malattia in modo moderato e lieve perché sono quelle che rischiano di più di non essere adeguatamente seguite, con un impatto più o meno importante sulla qualità della vita”, chiede Cassone. Inoltre, per il futuro l’auspicio. è che vengano delineate delle linee guida più chiare. “Esistono già linee guida internazionali che forniscono indicazioni sulla diagnosi e la gestione delle MEC nelle donne, con particolare attenzione alle specificità legate al ciclo mestruale e alla gravidanza”, spiega Rita Carlotta Santoro presidente dell’Associazione italiana Centri Emofilia (AICE). “In Italia come AICE stiamo lavorando alla redazione di Linee guida nazionali e abbiamo istituito uno specifico Gruppo di Lavoro rivolto a studiare gli aspetti clinici e di ricerca relativi alle donne portatrici e affette da malattie emorragiche congenite”, aggiunge.
La ricerca
Fondamentale a questo scopo prevedere una maggiore inclusione delle donne con disturbi emorragici negli studi clinici, oggi purtroppo sottorappresentate o addirittura escluse. “Ad esempio, in emofilia solo un numero limitato di studi consente la partecipazione di donne – evidenzia Santoro – il che ha causato lacune nei dati e nella comprensione per quanto riguarda la gestione e gli esiti di disturbi emorragici nelle donne. Questa mancanza di inclusione limita la base di prove per il trattamento nelle donne perpetuando le sfide nel fornire assistenza clinica specifica per genere”.
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