Il mare come terapia: quattordici ragazzi con diabete di tipo 1 a bordo di Nave Italia
Per cinque giorni, quattordici ragazzi dell’Associazione Giovani Diabetici di Novara, tutti con diabete di tipo 1, hanno vissuto come marinai a bordo di Nave Italia, il brigantino a vela più grande del mondo. Tra turni di cucina, sveglie all’alba e vele da issare, hanno scoperto che anche la vita con una malattia cronica può avere il ritmo del mare: imprevedibile, ma affrontabile.
Il mare come specchio
Durante la navigazione nel mare della Liguria, Nave Italia è diventata la loro casa. Hanno dormito sotto coperta, condiviso spazi stretti, imparato a muoversi tra cambuse e corridoi con la stessa disciplina dell’equipaggio. A turno hanno apparecchiato, pelato patate, lavato i piatti. La vita a bordo, con i suoi ritmi serrati e i lavori divisi tra tutti, è diventata la loro quotidianità.
E il mare, mutevole e imprevedibile, è stato per ciascuno uno specchio fedele: a volte calma piatta, a volte onde improvvise. Come nella vita con il diabete, ci sono momenti di quiete e altri in cui un valore sballato rischia di far perdere la rotta. A bordo, però, tutto è sembrato più naturale: gestire se stessi, trovare un ritmo, capire che anche una condizione complessa può convivere con la leggerezza.
La forza di chi convive con il diabete
A bordo di Nave Italia sono saliti ragazzi e ragazze delle scuole superiori, alcuni poco più grandi, cresciuti con la malattia fin dall’infanzia. “La maggior parte di loro convive con il diabete da oltre otto, dieci anni”, racconta Marco Alleva, presidente dell’Associazione Giovani Diabetici di Novara. “Molti ricordano le scuole medie come il periodo più duro: un’età fragile, segnata da insicurezze e dagli sguardi curiosi dei compagni. Con il tempo, però, quella fatica è diventata esperienza: oggi sanno leggere una curva glicemica con rapidità, gestire i valori in autonomia e, soprattutto, hanno costruito una nuova consapevolezza di sé”.
Anche lui si è avvicinato all’associazione come papà, quando a suo figlio – oggi studente universitario – fu diagnosticato il diabete di tipo 1 a nove anni. “So bene cosa significhi portare avanti questa sfida ogni giorno. Per questo abbiamo immaginato un’esperienza diversa dai soliti campi: non lezioni teoriche, ma vita vera, la gioia di stare insieme e l’orgoglio di sentirsi parte di un equipaggio”.
E in effetti, a bordo, i segni della malattia sembravano quasi una divisa condivisa. Le canottiere e le magliette leggere lasciavano intravedere i cerotti bianchi dei sensori sulla pelle; i microinfusori – piccoli dispositivi che rilasciano insulina goccia dopo goccia – spuntavano dalle tasche dei jeans o aderivano ai leggings delle ragazze.“La cosa più bella di questi giorni – dice Samuele, 18 anni – è che altrove tutto questo avrebbe potuto attirare sguardi curiosi, qui invece era il simbolo silenzioso di una condizione comune, e nessuno aveva bisogno di spiegare nulla”. A bordo, se un sensore suonava, qualcuno si voltava subito: “Tutto ok?” Se un compagno aveva ballato troppo e l’energia calava, un altro gli passava una bustina di zucchero: “Tieni, così risali”.A tavola c’era chi faceva i conti dei carboidrati insieme all’amico, e la sera, prima di dormire, qualcuno chiedeva: “Hai controllato la glicemia?”. Gesti rapidi, spontanei, che non avevano bisogno di parole.
La vita a bordo
Da quasi vent’anni Nave Italia accoglie chi convive con una fragilità – una malattia cronica, una disabilità, un disagio sociale – e lo trasforma in esperienza di forza. Ma il brigantino, pur essendo una nave scuola unica al mondo, resta una nave con equipaggio della Marina Militare: a bordo si vive secondo regole precise: disciplina, collaborazione, responsabilità.
Per i ragazzi questo ha significato alzarsi presto ogni mattina. Dopo la colazione, ognuno aveva il suo compito: c’era chi lucidava gli ottoni fino a farli brillare, chi strofinava i boccaporti con spazzole e acqua salata, chi imparava a tracciare la rotta accanto all’ufficiale di guardia. Nessuno restava spettatore: anche il lavoro più piccolo serviva a far avanzare la nave.
Un guasto tecnico ha costretto la nave a rientrare anzitempo in porto, a Genova, ma non ha spento l’entusiasmo. Tra le esperienze più apprezzate c’è stata la “salita a riva”: arrampicarsi fino a dieci metri sull’albero di trinchetto. Una sfida che mescolava paura e adrenalina, trasformandosi in una metafora potente. Salire più in alto voleva dire fidarsi, scoprire risorse nascoste, superare limiti che sembravano invalicabili.
“In questi momenti capisci che puoi fare tutto”, ha confidato Giorgia, 13 anni, con la sua passione per la danza. Il rapporto con il diabete per lei è un’altalena: ci sono giorni in cui conviverci è naturale, e altri in cui lo specchio diventa il nemico peggiore. “Solitamente non mi piace far vedere che ho il diabete. Nascondo sempre il sensore sul gluteo e, prima di ballare, metto il microinfusore in una scatolina: è difficile guardarmi mentre faccio la cosa che amo di più”. A bordo, però, è stato diverso. Con le altre ragazze ha trovato nuove complicità: consigli pratici su come sentirsi belle anche in un tubino nero, o piccoli trucchi per sistemare l’infusore sotto un abito stretto senza fastidio.
Il cuore dell’esperienza
Il vero cuore di questa esperienza è stato lo stare insieme, come fanno tutti i ragazzi della loro età. Dopo cena un marinaio prendeva la chitarra e partivano le canzoni: le voci si intrecciavano e il ponte diventava un coro. La sera dopo c’era chi improvvisava un ballo, e gli altri ridevano battendo le mani. Momenti leggeri, in cui la malattia sembrava restare lontana, almeno per un po’.
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Con il diabete, però, non si stacca mai davvero. Non è una malattia che si dimentica con una pastiglia: accompagna ogni giornata, entra nei pensieri durante una verifica a scuola, in un’uscita con gli amici, in una partita di basket. È quasi un secondo lavoro della mente. E questi ragazzi lo sanno bene: sanno che forse non avranno mai la stessa leggerezza assoluta dei loro coetanei. Eppure, a bordo di Nave Italia, per cinque giorni, sembravano esserci riusciti. Sul ponte, tra risate e canzoni, erano semplicemente se stessi: sereni, presenti, felici.
Forse è questo il regalo più grande che la nave ha lasciato loro: la certezza che il diabete non li definisce, e che – nonostante la fatica quotidiana – si possono vivere momenti di libertà vera. Non una fuga, ma un modo diverso di stare dentro la malattia, senza farsene schiacciare. Una lezione che non resta sul mare, ma continua a navigare con loro anche a terra. E quando il Capitano di Fregata Matteo Malerba, in alta uniforme, li ha salutati pronunciando il motto latino della nave – “Sursum corda”, in alto i cuori – quelle parole hanno avuto il sapore di un augurio: “continuate a tenere alto lo sguardo e il coraggio, come avete fatto qui”.
Una staffetta solidale
Dal 2007 la Fondazione Tender To Nave Italia ha portato in mare oltre cinquemila persone. La stagione 2025, salpata ad aprile da La Spezia sei mesi fa, proseguirà fino alla fine di ottobre: in sei mesi, il brigantino più grande del mondo ospiterà venti progetti, ciascuno dedicato a un’associazione o a un nuovo gruppo. Il ritmo è quello di una staffetta solidale: un gruppo scende, un altro sale, portando con sé storie, sfide e desideri di rinascita. Così la nave diventa una casa che cambia volto settimana dopo settimana, ma mantiene lo stesso spirito: inclusione, condivisione, forza che nasce dall’esperienza comune.
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“Il nostro metodo – spiega Paolo Cornaglia Ferraris, direttore scientifico della Fondazione – non punta a colmare un deficit, ma a valorizzare le risorse di ciascun partecipante, liberandole dallo stigma della malattia”. Parole che riassumono perfettamente lo spirito di Nave Italia: trasformare il mare in un luogo di libertà, dove la fragilità non è etichetta, ma punto di partenza per riscoprire la propria forza.
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