Junk food, un esame del sangue o delle urine svela quanto ne mangi. Il pericolo molecola tossica

Cibi pre-trattati, cibi precotti: lavorati, raffinati, insaporiti, ammorbiditi e speziati. E anche colorati e profumati. Qual è l’impatto che hanno sul nostro organismo? È la domanda che molti non si pongono, perché non sanno, o non vogliono sapere, che questi alimenti attaccano ogni giorno la nostra salute, anche pesantemente. Del problema si è occupato un studio pubblicato Plos Medicine, studio che ha individuato un nuovo modo per scoprire quanto cibo spazzatura mangiamo ogni giorno. In pratica sono le molecole, nel sangue e nelle urine, a poter rivelare la quantità di cibo ultra-processato che inseriamo nel nostro organismo. Basterà quindi, appunto, un’analisi del sangue o delle urine per scoprirlo.

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Cibo spazzatura, consumo in aumento

Sia la disponibilità che il consumo di alimenti ultra-processati (Upf) aumentano. Di cosa si tratta? Vengono definiti “prodotti commestibili, pronti al consumo o pronti da riscaldare, che escono dalle linee industriali e realizzati principalmente o interamente con ingredienti estratti da alimenti integrali, e spesso contenenti sostanze alimentari di scarso o nullo utilizzo culinario e/o additivi cosmetici”. Lo spiega anche il team di ricercatori del National cancer institute, impegnati in quest’ultimo lavoro, gruppo guidato da Erikka Loftfie, chiarendo che “rappresentano oltre il 50% delle calorie consumate da bambini e adulti, e sollevano preoccupazioni per il potenziale impatto sulla salute umana”.

Studi epidemiologici hanno collegato il consumo di Upf a fattori di rischio per malattie croniche, come aumento di peso e obesità, ma pure al rischio di malattie cardiometaboliche e ad alcuni tipi di cancro.

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La classificazione

La maggior parte degli studi epidemiologici sul consumo di cibi ultra-processati ha utilizzato il sistema Nova per classificare gli alimenti in base al loro livello di lavorazione. “Ma una classificazione accurata secondo Nova richiede informazioni dettagliate sulle fonti alimentari, sui metodi di lavorazione, sugli ingredienti e sui loro scopi – spiegano i ricercatori -. Tuttavia, gli strumenti e i database di valutazione dietetica catturano queste informazioni in misura variabile. Di conseguenza, si potrebbero incontrare difficoltà nell’applicarlo in modo accurato, generando preoccupazioni sull’errata classificazione, sull’esposizione e la comparabilità dei risultati”. E aggiungono: “Attualmente, la ricerca sulla metabolomica nutrizionale in studi basati sulla popolazione che utilizzino strumenti di valutazione validati e prelievi seriali di sangue e urine per generare dati metabolomici è carente”.

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Perché è nato lo studio

Perciò gli autori si sono posti come obiettivi principali quelli di “identificare i metaboliti del sangue e delle urine associati all’assunzione media di cibi ultra processati a 12 mesi (valutati utilizzando richiami dietetici multipli delle 24 ore), e anche di sviluppare punteggi di polimetaboliti nel sangue e nelle urine predittivi dell’assunzione dei cibi in questione”. I pazienti hanno così partecipato allo studio Interactive diet and activity tracking in AARP (IDATA)”.

Ma c’era pure un obiettivo secondario: “Verificare se questi punteggi di polimetaboliti potessero, nel contesto dello studio randomizzato, distinguere all’interno di ogni persona tra diete che contengano l’80% e lo 0% di energia da alimenti processati”.

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Come si è svolto il lavoro

Per far questo i ricercatori hanno analizzato i campioni di sangue e di urina di 718 anziani, insieme ai richiami alimentari dettagliati, per identificare impronte chimiche, chiamate punteggi di polimetaboliti, fattori collegati all’assunzione di cibi ultra-processati.

Lo studio ha rilevato che centinaia di metaboliti nel sangue e nelle urine erano associati alla percentuale di energia assunta dai cibi in questione. “Abbiamo creato un punteggio di polimetaboliti corrispondente all’assunzione di Upf, utilizzando 28 metaboliti nel sangue o 33 nelle urine – sottolineano gli autori -. Questo punteggio è risultato predittivo dell’assunzione di cibi ultra-processati tra i partecipanti utilizzando dati dietetici auto-riportati”. I ricercatori hanno quindi convalidato i punteggi in uno studio alimentare controllato, confermando che si potevano distinguere, nelle persone sotto esame, tra diete ad alto contenuto di cibi spazzatura, o senza di essi (in questa seconda ipotesi sono stati coinvolti 20 pazienti ricoverati al NIH Clinical Center, sottoposti a diete ad alto contenuto controllato.

“Questi risultati potrebbero fungere da misure oggettive dell’assunzione di cibi ultra-processati in ampi studi di popolazione, per integrare o ridurre la dipendenza dai dati dietetici – concludono gli scienziati Usa -. Inoltre, potrebbero fornire nuove informazioni sul loro ruolo nella salute umana”.

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I quattro gruppi di alimenti trasformati

Il punto sugli alimenti oggetto dello studio, cibi che escono dalle industrie super-lavorati e pronti per il consumo, lo fa la dottoressa Raffaella Cancello, nutrizionista ricercatrice del Dipartimento di Scienze mediche e Riabilitative a indirizzo endocrino-metabolico, Laboratorio di Ricerche in Nutrizione e Obesità dell’Irccs -Istituto Auxologico italiano di Milano. Che spiega: “La classificazione Nova suddivide gli alimenti in quattro gruppi in base al loro grado di trasformazione industriale:

1 – Alimenti non trasformati o minimamente lavorati (frutta, verdura, latte, ecc.).

2 – Ingredienti culinari trasformati (zucchero, olio, sale, ecc.), utilizzati per cucinare.

3 – Alimenti trasformati (formaggi, prosciutti, conserve, pane artigianale, ecc.), ottenuti combinando alimenti del gruppo 1 con ingredienti del gruppo 2.

4 – Alimenti ultra-processati (snack confezionati, merendine, bevande zuccherate, piatti pronti, ecc.), caratterizzati dalla presenza di additivi, conservanti e da un basso valore nutrizionale, e il cui consumo è sempre più associato a gravi rischi per la salute”.

L’esperta prosegue: “Numerose evidenze scientifiche collegano un consumo frequente (quotidiano) di alimenti ultra-processati (gruppo 4) a ben 32 patologie, tra cui obesità, diabete e malattie cardiovascolari. È importante sottolineare, inoltre, che tali prodotti possono contenere sostanze cancerogene o contaminanti provenienti dai materiali di imballaggio”.

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“Gli effetti positivi della ricerca”

Raffaella Cancello parla quindi del nuovo studio Usa. “In questo contesto esso rappresenta un significativo passo avanti nella comprensione degli effetti dei cibi ultra-processati sulla salute – dice -. I ricercatori hanno identificato centinaia di metaboliti presenti nel sangue e nelle urine che risultano correlati all’assunzione di questi alimenti. E sulla base di queste correlazioni, sono stati sviluppati degli ’score’ o punteggio poli metabolico capace di predire in modo oggettivo il consumo di cibi ultra-processati”.

“Questo studio si è avvalso di una vasta raccolta di dati sulle abitudini alimentari, protrattasi per 12 mesi, e dell’analisi di oltre 1.000 metaboliti in un’ampia coorte di partecipanti – prosegue l’esperta -. In particolare, tre metaboliti, ossia la N6-carbossimetillisina, il la S-metilcisteina-solfossido e l’acido pentoico, si sono confermati marcatori stabili e significativi dell’assunzione di cibi ultra-processati”.

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Sostanze tossiche dagli imballaggi al sangue

C’è poi un aspetto che Cancello definisce “particolarmente interessante” emerso dalla ricerca: “È la rilevazione del levoglucosano nelle urine, sostanza ampiamente utilizzata nei materiali di imballaggio derivati dalla cellulosa – evidenzia -. Questo metabolita, utilizzato come biopolimero negli imballaggi alimentari, suggerisce che il consumo di cibi preimballati potrebbe esporre i consumatori a sostanze derivanti dai materiali di confezionamento, un elemento spesso sottovalutato nella valutazione dietetica”.

“La presenza di una molecola tossica nelle urine è una prova di esposizione e assorbimento parziale – conclude Cancello -. Non dice tutto sul livello di rischio, ma è un segnale da non trascurare, soprattutto se la sostanza è nota per avere effetti a lungo termine anche a basse dosi. In prospettiva futura, sarà cruciale validare questi promettenti biomarcatori al fine di migliorare la previsione del rischio di sviluppare malattie croniche in caso di consumo abituale di cibi ultra-processati.

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