L’Hiv non è più una condanna, ma serve più informazione sui pericoli del virus

Oggi l’infezione da Hiv non fa più paura, almeno non come 30 anni fa. Chi riceve una diagnosi di positività può, infatti, contare su terapie che, se prese con costanza e regolarità, portano ad avere un’aspettativa di vita sovrapponibile a chi l’infezione non ce l’ha. In altre parole, il volto dell’Hiv è radicalmente cambiato rispetto a quello che abbiamo conosciuto negli anni ’80 e ’90 del secolo scorso. “Lo scenario epidemiologico, infatti, ci racconta che oggi una persona che scopre di essere infettata dal virus ha almeno 60 anni di vita di fronte a sé”, ha spiegato Annamaria Cattelan, direttrice Malattie Infettive e Tropicali dell’Azienda Ospedale Università di Padova, intervenendo al Festival di Salute durante il talk “Vivere con l’Hiv”. “Nessun’altra patologia ha potuto contare su un successo terapeutico di questa portata: le terapie antiretrovirali hanno rivoluzionato il trattamento di questa infezione”.

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Stop alla trasmissione del virus

Questi farmaci hanno segnato un vero e proprio punto di svolta: bloccando la riproduzione del virus nelle cellule, ne hanno ridotto così tanto la quantità che circola nell’organismo da renderlo non trasmissibile. È il concetto rappresentato dall’equazione di U=U, cioè undetectable=untrasmittable (non rilevabile=non trasmissibile).

Se le persone che vivono con l’Hiv seguono correttamente la terapia, quindi, la loro carica virale diventa non rilevabile, non trasmettono il virus e possono avere una vita sociale e affettiva serena. Ciò non toglie che debbano affrontare diversi problemi sia fisiologici, tra cui insonnia, disturbi dell’umore e fatica cognitiva, sia legati alla sfera psicologica, come lo stigma che segna la malattia.

Tutti aspetti che hanno un impatto sulla qualità di vita e che possono diminuire l’aderenza alle terapie. Per esempio, le persone con l’Hiv hanno un’incidenza dell’insonnia che può arrivare fino al 70%. “Effetti che possono derivare dall’uso di alcuni farmaci, ma anche dall’Hiv stesso che, se non controllato, può entrare nel sistema nervoso centrale e provocare danni ai neuroni”, ha precisato Cattelan. Ecco perché è fondamentale che la diagnosi avvenga precocemente e che la terapia sia seguita con regolarità.

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Ritardo diagnostico

Purtroppo, i dati ci dicono che, delle circa 1800 nuove diagnosi che si registrano ogni anno in Italia, una buona parte è tardiva: avviene a distanza di anni dall’infezione e, quindi, quando il virus ha già danneggiato l’organismo. E ancora: 16mila persone che sono in trattamento farmacologico non hanno ancora raggiunto la soppressione virale. “Significa che non si curano con continuità, si stanno curando male o hanno abbandonato le cure. Sono spesso persone vulnerabili dal punto di vista sociale, così come chi arriva tardi alla diagnosi”, ha specificato Paolo Meli, pedagogista dell’Associazione Comunità Emmaus, anche lui ospite del Festival di Salute. “C’è quindi una correlazione tra la fragilità, la vulnerabilità, la difficoltà di accesso alla diagnosi e quella del mantenimento in cura”.

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In questo scenario l’informazione da una parte e il dialogo con il medico dall’altra possono e devono giocare un ruolo importante, per parlare rispettivamente di prevenzione e di qualità di vita. “In questi ultimi 10 anni è crollata l’informazione sull’Hiv: è un fenomeno molto pericoloso, perché porta i giovani a non usare precauzioni, a non farsi il test o a farlo dopo molto tempo e quindi a utilizzare i farmaci troppo tardi”, ha sottolineato Antonello Dose, conduttore radiofonico, persona Hiv positiva, intervenendo al talk.

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È necessaria quindi un’informazione che sia destinata ai più giovani e che sia preventiva, pratica e orientata all’inclusione. “I giovani sono pronti, accolgono e apprendono”, ha assicurato Meli, ricordando tuttavia che l’educazione sessuale nelle scuole non è curricolare: “Ho una visione molto positiva su ciò che i giovani potrebbero fare, ma manca la possibilità di un lavoro continuativo che sarebbe anche un investimento sulla prevenzione”.

Sul fronte della qualità di vita, invece, è il rapporto con il medico che può rappresentare uno strumento importante. “Il nostro compito è avere un approccio personalizzato, guardare alla persona con Hiv nella sua interezza, non solo sul fronte della terapia, con una valutazione multifattoriale”, ha concluso Cattelan. “Il valore del dialogo che si instaura in un rapporto empatico con il paziente è inestimabile. Chi ha un buon rapporto con il medico riesce a essere aderente alla terapia e, quindi, a raggiungere una buona qualità di vita che alcuni tipi di farmaci, anche innovativi, ci permetteranno di migliorare”.

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