Non è il rientro di settembre a pesare: è l’anno che non sappiamo vivere

Ogni anno, a fine agosto, il copione è lo stesso: si disfano le valigie, le città tornano a pulsare di traffico e di rumore, l’agenda si riempie di appuntamenti e scadenze. A questo scenario si accompagna puntuale quella sensazione di svuotamento che molti definiscono “sindrome da rientro”. Ma ridurla a un fastidio passeggero significa non coglierne la radice profonda.

La sindrome da rientro

Il problema non è mai davvero settembre. Il problema è tutto ciò che precede. Dodici mesi in cui il lavoro, la routine e spesso persino le relazioni vengono vissuti con un senso di oppressione, come se fossero solo un ostacolo da superare in vista dell’unico tempo considerato degno di essere vissuto: le ferie. Così ci ritroviamo a sopravvivere da settembre a luglio, coltivando la speranza che “ad agosto ci sarà la salvezza”.

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In questo meccanismo, le vacanze diventano un mito irraggiungibile, un contenitore fragile che deve restituirci energia, felicità, leggerezza, intimità, perfino amore. Ma nessuna settimana di mare, nessuna camminata in montagna, nessuna cena vista tramonto potrà caricarsi del peso di ciò che non riusciamo a coltivare durante l’anno. Ed è proprio questa sproporzione a generare frustrazione: chiediamo troppo alle vacanze e troppo poco a noi stessi nei giorni ordinari.

La vacanza come specchio di ciò che ci manca

La vacanza, in fondo, non è mai solo una pausa. È lo specchio di ciò che ci manca. In quei giorni sospesi emergono con più chiarezza le crepe: se siamo soli, la solitudine appare più nuda; se siamo insoddisfatti, il vuoto si fa più rumoroso; se viviamo rapporti conflittuali, il tempo forzatamente condiviso li esaspera. Eppure continuiamo a credere che basti “staccare la spina” per resettare tutto. Ma la psiche non funziona come un dispositivo elettronico: non ha un tasto di riavvio, ha bisogno di continuità.

Ecco perché il ritorno dalle ferie ci appare così brutale: non torniamo solo in ufficio, torniamo a fare i conti con l’insostenibilità di una vita che non ci appartiene davvero. Il rientro diventa una resa dei conti, non un semplice cambio di scenario. È come se la vacanza avesse messo in pausa la consapevolezza del nostro malessere, e il settembre la riattivasse con violenza.

Un cambio di prospettiva

Se davvero vogliamo spezzare questo meccanismo, dobbiamo cambiare prospettiva. Le vacanze non salveranno nessuno. Possono alleggerire, non guarire. Non sono la cura, ma l’intervallo. La sfida vera è imparare a coltivare la soddisfazione nell’anno “normale”: concedersi pause brevi e regolari, non rimandare tutto a un mese all’anno; recuperare senso nel lavoro, non come unica fonte di identità, ma come parte della vita; ritagliare momenti di piacere e connessione autentica anche nella routine.

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La psicologia ci insegna che il benessere non è un evento eccezionale, ma un processo quotidiano. È una manutenzione lenta, fatta di piccoli gesti costanti, non di grandi fughe episodiche. Se ci affidiamo solo alle ferie, continueremo a tornare svuotati e arrabbiati. Se invece impariamo a “vivere l’anno”, settembre smetterà di essere un castigo e diventerà solo un passaggio, un nuovo inizio possibile.

Le vacanze finiscono, è vero. Ma non dovrebbe finire la possibilità di sentirsi vivi. E se ci accorgiamo che questo accade, forse non è colpa del calendario, ma di come abbiamo deciso, o non abbiamo avuto il coraggio, di abitare i nostri giorni.

Giuseppe Lavenia – psicoterapeuta, docente universitario, presidente Associazione Nazionale Dipendenze Tecnologiche, GAP e Cyberbullismo (Di.Te.)

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