Oltre la “follia”, ripensare il linguaggio con cui i media raccontano la sofferenza mentale

La tragedia di Castel d’Azzano, in cui hanno perso la vita tre carabinieri, ha sconvolto l’opinione pubblica. Ma insieme al dolore, ha riacceso anche un dibattito necessario: quello sul linguaggio con cui i media raccontano la sofferenza mentale. Molti titoli giornalistici, in questi giorni, hanno accostato le parole “follia”, “pazzia”, “ossessione” alla strage.Titoli che sembrano offrire una spiegazione immediata, ma che in realtà semplificano, distorcono e rafforzano vecchi pregiudizi.

Dietro la scelta di parole come “la strage della follia” si nasconde un meccanismo di difesa collettivo: serve a mettere distanza, a esorcizzare l’angoscia che un evento così tragico può suscitare in ciascuno di noi. Da un punto di vista psicodinamico, questa scorciatoia linguistica evita il confronto con la paura che simili gesti possano nascere anche in contesti ordinari, dentro la vita quotidiana di ognuno. Perché in fondo, di fronte a ciò che non riusciamo a spiegare, non ci sentiamo più difesi. Un tempo, le mura dei manicomi servivano anche a questo: a tracciare una linea netta tra “noi” e “loro”.

Lo stigma

Quei confini proteggevano dal contatto con la follia, quella che – a differenza di una frattura di un osso – non ha segni visibili. Oggi quelle mura non ci sono più, ma ne rischiamo di costruirne altre, invisibili e ugualmente nefaste: si chiamano stigma e pregiudizio. Sono le barriere che ci aiutano a ridurre l’angoscia, a illuderci che ciò che è accaduto “lì” tra i “matti” non possa mai accadere “qui”, tra noi i “normali”.

Eppure, proprio questa distanza impedisce di vedere che dietro ogni tragedia ci sono storie, legami, fratture umane e molto più raramente disturbi mentali. Come in questo caso: tutti sapevano che quella era una famiglia isolata, fragile, messa da parte. Ma quanti e come, davvero, hanno provato a riavvicinarli come esseri umani travolti dal dolore? Si poteva fare di più, diversamente? A volte è più semplice mettere un’etichetta che farsi una domanda.

Le parole

Ogni storia ha radici lontane. Nulla accade “da un giorno all’altro”. Se anche questa fosse — come alcuni titoli scrivono — una “tragedia della follia”, allora la domanda da porsi sarebbe un’altra: come è stato possibile che in tanti anni nessuno sia riuscito a costruire una rete capace di mettere veramente al centro le persone? Il 10 ottobre si è celebrata la Giornata Mondiale della Salute Mentale, un’occasione che avrebbe dovuto rafforzare il messaggio del rispetto e dell’inclusione. E invece, anche in quella circostanza, si sono ascoltate parole e affermazioni discutibili.

I femminicidi

Alcuni interventi pubblici, privi di basi scientifiche, hanno sostenuto che “un femminicida su tre ha disturbi mentali”, o addirittura invitato a “sospettare dei compagni di classe”, tra i banchi di scuola, perché “tra loro si potrebbero nascondere potenziali killer”.

Il Vademecum

Dichiarazioni di questo tipo, non suffragate da evidenze scientifiche, alimentano paure infondate e rischiano di trasformare la salute mentale in un terreno di sospetto permanente. A fronte di tutto ciò, appare ancora più importante ricordare e diffondere il messaggio del “Vademecum – Informare sulla salute mentale”, realizzato dall’Ordine dei Giornalisti con RAI per la Sostenibilità – ESG e il Dipartimento di Salute Mentale della ASL Roma 2, nato all’interno del Festival Ro.Mens per l’inclusione sociale contro il pregiudizio. Il documento offre linee guida chiare per un’informazione corretta, rispettosa e consapevole: evitare semplificazioni, usare le parole giuste, distinguere la sofferenza dal pericolo, e mettere sempre al centro la persona, non l’etichetta.

Le scelte

L’informazione, allora, non dovrebbe chiudere le vicende con un titolo che rassicura, ma di aprire spazi di comprensione. Perché la verità, in questi casi, non sta nella semplificazione ma nella complessità. E perché, come ricordiamo nel Vademecum, l’informazione può combattere o rafforzare lo stigma. Dipende da come scegliamo di raccontare. E da quanto siamo disposti, come società, a guardare davvero dentro il dolore senza nasconderlo dietro una parola.

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