Tumore metastatico della prostata, è il gatto che diventa tigre

L’ex presidente degli Usa Joe Biden ha un tumore alla prostata in stadio avanzato, con metastasi ossee e Gleason 9. Ma che cosa vuol dire esattamente e come si interviene? Lo abbiamo chiesto a Bernardo Rocco, Direttore della UOC Clinica Urologica della Fondazione Policlinico Universitario Gemelli di Roma e presidente del comitato scientifico di Europa Uomo.

Tumore alla prostata, la nuova cura che blocca le metastasi

Un tumore che ha dato metastasi è già in stadio avanzato, e in un paziente come l’ex presidente americano, che si suppone sia sottoposto a controlli continui, sembra strano. Come è possibile?

“Il tumore alla prostata è un felino, può essere un gatto o una tigre. Nella maggior parte dei casi è gatto, nel 5-6% dei casi, che sono particolarmente aggressivi e danno molto più facilmente metastasi, è invece una tigre. E molto spesso la diagnosi si fa solo in presenza di metastasi”.

Quelle ossee sono le più frequenti?

“Sono le più comuni, sì. Raramente vediamo metastasi polmonari o cerebrali”.

E Gleason 9 che cosa vuol dire?

“Il Gleason è un indice con un punteggio che dà il patologo e va da sei a 10. Misura l’aggressività della malattia, quindi 9 è un punteggio molto alto”.

Un paziente metastatico con Gleason 9 come si tratta? Il fatto che il presidente Biden risponda alla terapia ormonale è una buona cosa?

“Quasi tutti i pazienti rispondono alla terapia ormonale, almeno all’inizio. Un po’ la malattia si spegne ma dopo un certo periodo di tempo, che dipende anche dallo stadio e dall’alto carico della malattia, la risposta si affievolisce e il Psa si rialza. A quel punto si ristadia la malattia con una Pet o altro imaging, si valuta l’entità e il carattere e si passa a un trattamento di secondo livello che prevede un approccio multiterapia con oncologo, urologo e radioterapista. Per questo motivo occorre che i pazienti siano curati in centri multispecialistici. In ogni caso l’obiettivo non è curare la malattia ma controllarla, non si può guarire un paziente metastico con Gleason 9 e la risposta alla malattia è sempre una sfida terapeutica.

Qual è il ruolo delle metastasi nella prognosi della malattia?

“Le metastasi ossee da tumore alla prostata in genere non sono quelle osteolitiche, che distruggono l’osso, ma osteoaddensanti, che non depauperano l’osso. Quello che è importante, però, è vedere dove sono localizzate perché se sono in zone pericolose – come la zona cervicale – c’è il rischio frattura con possibile immobilità del paziente”.

Le possibilità di intervento sono legate anche all’età del paziente o a quanto sono estese le metastasi?

“Certamente sono entrambi fattori da valutare. Ma la differenza tra una persona di 82 anni e un quarantenne è solo l’aspettativa di vita minore per il primo. Inoltre, in un paziente molto anziano, è probabile che non si valuti la chemioterapia, ma una terapia ormonale di secondo livello, una target therapy o anche qualche protocollo sperimentale. E in pazienti selezionati con pochissime metastasi si può intervenire con l’ormonoterapia e la radioterapia insieme. Inoltre uno studio su Lancet suggerisce che può essere importante agire anche sul sito primario, cioè sulla prostata, asportandola, cosa che riduce l’impatto dello sviluppo di nuove metastasi. Gli studi non sono ancora molti, ma la ricerca va avanti e noi stiamo già procedendo in questo senso”.

Questo tumore così aggressivo dà dei segnali?

“Purtroppo no, lo si intercetta per questo spesso in fase avanzata. Cosa che ribadisce l’importanza della prevenzione. Oggi il tumore alla prostata per l’uomo è come la mammella per la donna”.

Per la prostata però non ci sono esami di screening, come per la mammella.

“Come Europa uomo ho partecipato alla messa a punto di un algoritmo per lo screening del tumore alla postata per la regione Lombardia, con Giuseppe Carrieri, presidente della Società italiana di Urologia. Il problema è che lo screening non è nei Lea e quindi viene proposto solo in alcune regioni ma quelle in piano di rientro non possono permetterselo. Abbiamo avviato interlocuzioni con il ministero della Salute, c’è sensibilità, vedremo che succederà. Sarebbe fondamentale”.

L’algoritmo cosa prevede e qual è l’incidenza di malattia?

“In Italia ci sono 44mila nuovi casi l’anno con 7000 decessi. Da noi un uomo su 8 nella vita si ammala di tumore alla prostata, negli afro-americani è un uomo su 4. Ci sono fattori di rischio noti, come la familiarità e l’etnia. Lo screening prevede test del Psa a partire da 50 anni, da 40 anni nel caso di familiarità o di positività a BRCA2, altra similitudine con la mammella e il gene BRCA1. In caso di sospetto si deve fare una risonanza magnetica che può orientarci verso una malattia aggressiva o, al contrario, verso un rischio di eccesso di intervento sia chirurgico che radioterapico. Questa modalità di intervento sarebbe ottimale ma certo ogni regione è diversa dall’altra e ci sono problemi anche gestionali”.

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