Tumori dell’ovaio e dell’utero, nuove terapie aumentano la sopravvivenza
Gli ormoni dello stress hanno un ruolo nello sviluppo e nella progressione del tumore ovarico. La conferma a quella che finora era solo un’ipotesi arriva da un’importante constatazione: bloccare la loro azione a livello cellulare migliora la sopravvivenza delle pazienti con la malattia più aggressiva. Lo ha dimostrato uno studio europeo coordinato dall’Italia e presentato all’ultimo congresso della Società americana di oncologia clinica, Asco, che potrebbe cambiare lo standard di cura per queste donne. Per la prima volta dopo anni di ricerca, infatti, si è avuto un miglioramento nella sopravvivenza globale in donne con tumore dell’ovaio recidivante e resistente alla chemioterapia a base di platino: un risultato ottenuto bloccando, appunto, l’azione dei glucocorticoidi. Come il cortisolo che, oltre a regolare numerosi processi metabolici, non a caso è chiamato l’ormone dello stress.
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La strategia che aumenta la risposta alla chemio
Parliamo dello studio di fase III Rosella, guidato da Domenica Lorusso – oggi responsabile della Ginecologica Oncologica di Humanitas San Pio X di Milano e professoressa ordinaria di Humanitas University – quando era Responsabile dell’unità Programmazione Ricerca Clinica della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli di Roma. Il trial ha coinvolto in tutto ben 117 centri di 14 paesi europei, e ha testato un farmaco sperimentale – relacorilant – che blocca il legame tra il cortisolo e i suoi recettori. I risultati, pubblicati anche su Lancet, dimostrano che questa strategia aumenta l’efficacia della chemioterapia a base di nab-paclitaxel, con un aumento di 4 mesi e mezzo della sopravvivenza mediana: superiore di quasi il 40% rispetto alla sola chemioterapia, senza aumentare gli effetti collaterali.
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“Bloccare” l’ormone dello stress funziona
Le partecipanti, 381 donne, erano già state sottoposte a più linee di trattamento senza successo. “Questo risultato è importante per due motivi – dice a Salute Lorusso – Prima di tutto dimostra l’ipotesi del ruolo dei recettori dei glucocorticoidi: abbiamo scoperto che il legame tra il cortisolo e questo recettore sulle cellule tumorali induce l’attivazione di una serie di geni che ne impediscono la morte. Il legame tra il cortisolo e il suo recettore è quindi un possibile innesco della malattia. Non solo: quando la malattia si è sviluppata, l’attivazione di questo recettore rende meno efficace la chemioterapia. Lo abbiamo sempre sospettato, ma ora abbiamo una base biologica per sostenerlo”. E infatti, nelle pazienti con tumore ovarico, gli alti livelli di cortisolo sono associati a prognosi particolarmente sfavorevoli. “Allo stesso tempo – e veniamo al secondo punto – abbiamo la prova scientifica che bloccare il recettore dei glucocorticoidi aumenta l’efficacia della chemioterapia”.
La nuova molecola appartiene a una classe di composti chiamati antagonisti selettivi del recettore dei glucocorticoidi, che agiscono interferendo con questo meccanismo. Il risultato ottenuto è stato possibile grazie alla collaborazione tra accademia, industria, ospedali di eccellenza e associazioni di pazienti, e potrebbe portare a un cambiamento nelle linee guida per il trattamento di questa complessa patologia che ogni anno colpisce oltre 5 mila donne nel nostro Paese.
Nuovi farmaci mirati all’orizzonte
Le novità, però, non si fermano qui. Lorusso ha infatti presentato anche un altro studio su una nuova promettente molecola, sempre per i tumori ovarici che non rispondono ai trattamenti standard. In questo caso i dati sono preliminari: “Il farmaco sperimentato è un inibitore di CDK2, una proteina (del gruppo delle cicline) che rappresenta uno dei punti di controllo della riproduzione cellulare – spiega l’esperta – Se questo sistema di controllo salta, le cellule continuano a riprodursi. Nel nostro studio, che ha coinvolto pazienti già trattate con 4 linee di terapia, abbiamo osservato una risposta al nuovo trattamento del 33% dove con la chemioterapia non si raggiunge il 10%. Abbiamo anche individuato un biomarcatore che predice la risposta, chiamato CCNE1. Ci sono quindi le premesse per proseguire la sperimentazione con uno studio di fase III, che coinvolgerà proprio le pazienti che presentano questo marcatore”. Infine, si aprono nuove prospettive anche per il tumore della cervice uterina (o collo dell’utero), grazie agli anticorpi farmaco coniugati.
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Tumore dell’utero avanzato: cambia la cura
Tornando in Italia, c’è una notizia che riguarda un altro tumore femminile, quello del corpo dell’utero – o dell’endometrio – che ogni anno colpisce circa 10 mila donne nel nostro Paese, soprattutto in post-menopausa, con un’età media alla diagnosi intorno ai 60 anni. Parliamo dell’approvazione dell’immunoterapia come primo trattamento nei casi di tumore avanzato o ricorrente che presentano delle particolari anomalie genomiche (chiamate deficit di ricombinazione omologa e instabilità dei microsatelliti). In questi casi, fin dall’inizio della cura è oggi possibile utilizzare il farmaco dostarlimab in aggiunta alla chemioterapia: una novità importante, perché questa strategia ha dimostrato di ridurre di ben il 72% il rischio di progressione di malattia e del 68% quello di morte rispetto alla sola chemioterapia impiegata fino a oggi.
Un risultato “inimmaginabile”
“Il 72% di riduzione della progressione della malattia o di morte in donne con carcinoma dell’endometrio avanzato o recidivante è un traguardo enorme, inimmaginabile – commenta Lorusso – Lo studio Ruby – che ha testato questa combinazione ed è frutto di una grande collaborazione internazionale – ha cambiato la pratica clinica per tutte le pazienti con carcinoma endometriale primario avanzato o ricorrente, con deficit di ricombinazione omologa o instabilità dei microsatelliti”.
I dati mostrano infatti che, a distanza di 3 anni dall’inizio delle terapie, il 78% delle pazienti trattate con dostarlimab e chemioterapia è vivo rispetto al 46% delle pazienti trattate con la chemioterapia. “Alcune tra queste donne potrebbero essere guarite: un verbo, guarire, che non avrei mai immaginato di poter usare per tumori recidivanti o che esordiscono al quarto stadio. A questo punto non è utopia pensare che alcuni gruppi di pazienti potrebbero addirittura beneficiare della sola immunoterapia senza chemio”.
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Un tumore poco conosciuto
Giugno è il mese dedicato proprio alla sensibilizzazione del tumore dell’utero. Per conoscere i bisogni delle pazienti e dei loro caregiver, l’International Gynaecological Cancer Society (IGCS) ha lanciato un questionario, un’iniziativa supportata nel nostro Paese da Acto Italia: “Difficilmente una donna di più di 50 anni si aspetta di ammalarsi di tumore dell’utero – sottolinea Nicoletta Cerana, Presidente dell’associazione Acto Italia – Perché non è prevenibile e si conosce poco, così come poco si conosce in generale l’apparato genitale femminile. E si fa confusione con i termini medici: endometrio, corpo dell’utero, collo dell’utero, ovaio. In sostanza, c’è poca informazione”.
Eppure è un tumore in crescita, ed è l’unico tra quelli ginecologici in cui anche la mortalità è in aumento, complice il fatto che spesso si pensa che sia un tumore “semplice”, e che possa quindi essere operato e curato ovunque. Non è così. Oggi si conoscono almeno 4 tipi diversi di tumore dell’endometrio e bisogna saperli riconoscere. “La mancanza di informazioni porta anche a sottovalutare la malattia, e spesso non si sa dove andare a farsi curare – conclude Cerana – La collaborazione è fondamentale per aumentare la consapevolezza e salvare vite: attraverso la diffusione del questionario, con il nostro webinar (disponibile sul canale Facebook) e il nostro sito speriamo di fornire strumenti preziosi e di incoraggiare le donne ad avere un ruolo attivo nella propria salute ginecologica”.
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