Tumori, in futuro i microrobot soft porteranno i farmaci dentro il corpo
Sono grandi qualche decina di micron e sono altamente deformabili, proprietà che permette loro di adattarsi all’ambiente in cui si trovano e soprattutto di spostarsi all’interno di fessure più piccole del loro diametro. Parliamo dei microrobot sviluppati da un gruppo di ricerca coordinato da Stefano Palagi, professore associato di bioingegneria presso l’Istituto di BioRobotica della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa.
Questi oggetti sono stati messi a punto nel corso di un progetto finanziato dal Consiglio Europeo per la Ricerca (European Research Council, Erc), avviato nel 2021 e che terminerà all’inizio del 2026. Ma il gruppo di Palagi ha appena ottenuto un ulteriore finanziamento che servirà ad aprire un nuovo ramo di questa linea di ricerca per studiare le possibili applicazioni dei microrobot. In particolare, l’obiettivo è quello di testare la loro capacità di rilasciare i farmaci all’interno dei tessuti tumorali, tipicamente molto difficili da penetrare.
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Obiettivo: rilascio localizzato del farmaco
“I microrobot sono stati proposti dalla comunità scientifica, non solo da noi, come possibili mezzi di rilascio localizzato dei farmaci”, racconta Palagi a Salute. Si tratta infatti di piccolissimi oggetti che possono essere guidati dall’esterno verso uno specifico target. Esistono anche altri sistemi di nanomedicina, pensati per rilasciare il farmaco solo quando incontrano cellule specifiche. Ma, spiega Palagi, solitamente la loro somministrazione avviene per via sistemica e solo una piccola parte raggiunge effettivamente il target.
L’obiettivo dello sviluppo dei microrobot sarebbe invece quello di permettere la somministrazione del farmaco direttamente nel sito di interesse, riducendo di conseguenza gli effetti collaterali. Ne esistono di diverse tipologie, racconta il docente, tutte al momento in fase di studio: “Alcuni sono anche a uno stadio di sperimentazione più avanzato rispetto ai nostri. Spesso si tratta però di oggetti che hanno una struttura rigida, oppure di cellule batteriche modificate per essere controllate da campi magnetici esterni”.
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Ispirati alle cellule del sistema immunitario
“Nel nostro caso abbiamo provato a fare una cosa diversa, prendendo ispirazione dalle cellule del sistema immunitario, che si spostano nei tessuti deformandosi in modo sostanziale”, prosegue Palagi. Di fatto, i microrobot messi a punto dal gruppo del Sant’Anna sono delle goccioline di una sospensione altamente stabile di particelle magnetiche, contenuta all’interno di una membrana costituita da un doppio strato di fosfolipidi sintetici, analoga alla membrana delle cellule. Quest’ultima ha uno spessore pari a 3-4 ordini di grandezza inferiore rispetto al diametro del microrobot nel suo complesso, che può andare da qualche decina di micron fino a un massimo di 100 micron. “Di fatto il microrobot si comporta quasi come se fosse completamente liquido”, spiega Palagi. “Applicando poi dei campi magnetici esterni è possibile spingerlo in una determinata direzione. Non è possibile invece controllarne la forma, da cui l’importanza della deformabilità per permettergli di muoversi dentro i tessuti tumorali e poter così rilasciare il farmaco direttamente all’interno della massa solida”.
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Le prospettive future
“Uno degli obiettivi futuri – prosegue – è capire come far variare i campi magnetici nel tempo in modo da mettere il microrobot nella condizione di esplorare, seppur passivamente, cioè attraverso il controllo esterno, lo spazio che ha intorno per trovare l’interstizio che consentirà il movimento nella direzione desiderata. Esattamente quello che fanno le cellule del sistema immunitario: testare l’ambiente circostante per trovare dei pertugi che permettono loro di muoversi all’interno dei tessuti”.
Al momento i microrobot sono stati testati solo in ambienti sintetici, mentre l’obiettivo del nuovo progetto è quello di valutare le loro caratteristiche su tessuti tumorali veri e propri attraverso esperimenti in vitro. “Naturalmente le tempistiche future dipendono dai risultati che otterremo – conclude Palagi – Se tutto andrà come sperato negli esperimenti in vitro dovremo poi passare agli studi pre-clinici su modelli animali per poi arrivare a studi pre-clinici negli umani. Nel migliore dei casi, prima di arrivare a delle applicazioni cliniche dovranno passare almeno dieci anni”.
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