A passo d’uomo, un viaggio unico e senza tempo tra i sentieri neri della Francia. In streaming su MYmovies

“Dedicato a tutti quelli che stanno scappando” era la chiosa sui titoli di coda di Mediterraneo, ode generazionale che Gabriele Salvatores firmava nel 1991. E c’è uno spirito simile, anche se ancora più introspettivo, alla base di A passo d’uomo, nuovo film di Denis Imbert che vede Jean Dujardin percorrere la Francia a piedi, sui sentieri meno battuti. Scappare, o meglio “scomparire nella geografia” come lo chiama il protagonista, è un atto di ribellione privata indirizzato sia alla famigerata “società moderna” che alla versione di se stesso che precedeva un grave incidente.

Una forma di espiazione, una prova fisica e spirituale, forse semplicemente una pausa che congela la realtà; lo fanno intendere quei silenzi che il film sfrutta così bene, lasciando che a riempire l’aria siano i suoni della natura e le note al pianoforte dell’accattivante colonna sonora a cura di Wouter Dewit.

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La Francia – sezionata in diagonale come il volto di Dujardin attraversato da una cicatrice – si presenta tramite i tesori che più stanno a cuore alla mitologia nazionale: il verde, le valli, le specificità regionali. La brava gente e gli agricoltori che non ce la fanno più, reduci di un mondo che si restringe. Un afflato tradizionalista che in fondo potrebbe essere, ed è, anche il nostro, quindi ci capiamo subito.

E se il paesaggio è fisso sulla scena, a fargli compagnia c’è il sempre affascinante Dujardin in un ruolo che riunisce le due facce della sua carriera. Una è la maschera guascona e sfacciata che gli ha dato il successo, con le commedie dell’agente 117 poi sublimate in The Artist (che gli valse un Oscar), sempre in collaborazione con Michel Hazanavicius, e che qui aiuta a rendere credibile il personaggio di un seduttore spericolato in fuga dai suoi fantasmi tra una bevuta e l’altra.

L’altra è quella drammatica, di cui ha dato prova più volte come sfida (ricordiamo le collaborazioni con Cédric Jimenez, Doppia pelle per Dupieux, L’ufficiale e la spia con Polanski) e che in A passo d’uomo arriva in versione non filtrata, nuda e cruda: c’è un rigore schivo e dimesso nel modo in cui incarna per lo schermo l’opera autobiografica di Sylvain Tesson, da cui il film è tratto.

Scrittore di viaggio ed esploratore, Tesson ha vissuto in prima persona la parabola di un personaggio chiamato a rimettersi da un trauma, in qualche modo meno preoccupato dalla riabilitazione fisica e più da un senso di vergogna per quanto accaduto e per gli errori commessi in passato.

Decide così, ancora immobilizzato su un letto d’ospedale, che entro un anno percorrerà a piedi l’intero paese, con una mappa come unica guida, dormendo sotto le stelle ed evitando accuratamente le strade principali. Lungo il percorso lo raggiungeranno delle persone care qua e là; ulteriore compagnia troverà poi negli sconosciuti incontrati per caso, delle piccole vignette che il film tratteggia sempre con grande cura.

Ma per la maggior parte del tempo l’uomo sarà da solo, all’inizio incerto nel passo e poi via via sempre più sicuro, di nuovo se stesso eppure diverso.

Il regista Denis Imbert ne accentua sì la vulnerabilità fisica ed emotiva, ma ne fa comunque un nobile cavaliere dell’arte dell’escursione: con il foulard bianco al collo, la camicia e il gilet, Dujardin scansa elegantemente l’estetica gorpcore contemporanea per rifarsi a un’idea di dandy fuori dal tempo. All’appuntamento con la Francia per riprendersi la propria vita, del resto, bisogna arrivare in condizioni adeguate.

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