Adriano Giannini: “Dalla testata ad Al Pacino a Madonna che suona per me, il mio lavoro è un’avventura”
“Ieri sera ero a cena con mio padre. È in forma, come al solito. Se poi lo è meno basta pungolarlo sui racconti di vecchio cinema, che amo ascoltare e che mi ritrovo anch’io a fare, dei tanti set che ho vissuto”. Adriano Giannini, 52 anni, con il leggendario padre Giancarlo, condivide non solo la professione ma la capacità di aneddotica, che in questa intervista coinvolgerà: una star ungherese, una diva famosa (di cui non rivela il nome), Madonna, Al Pacino, Giuseppe Tornatore, Gérard Depardieu e i cani Alma, Uma, Giotto e Nerone.
Che le raccontava ieri suo padre?
“Di Marlon Brando, che aveva incontrato con Coppola a New York. Gli disse quattro parole ‘non leggere mai copioni’. E di quando incontrò Billy Wilder in un locale al Sunset Boulevard, si vergognava ad andare da lui, poi arriva il cameriere ‘il signor Wilder vorrebbe salutarla’. Lui va al tavolo e Wilder recita in italiano battute di Pasqualino Settebellezze. Certo i miei ricordi sono meno glamour di tutto questo ma ce le ho. Sono le cose che restano dei film, tanti non lo capiscono. Gli incontri umani. Lo dice papà e lo penso anch’io. Nel lavoro ricerco un incontro di verità con persone che mi piacciono, con cui condividere risate e giochi”.
Un set avventuroso?
“Tanti anni fa, cinque mesi in Transilvania, film mai uscito in Italia, unico italiano tra ungheresi e rumeni. Freddo della madonna, posto selvatico, lupi e orsi attaccavano e distruggevano le costruzioni del set. Due star ungheresi, una premiata a Cannes negli anni 50. Io sempre in scena con lei, che non parlava inglese quindi comunicavamo a sguardi. Mi spostavo in macchina, con il mio cane, a un certo punto una notte ritorno nella neve attraverso il bosco e lei mi fa capire che vuole un passaggio per l’albergo. Io, il cane dietro, lei accanto a me, una donnona che era anche cantante lirica. Nel silenzio, in questo bosco innevato e magico, uniche luci i fari della macchina, lei inizia a cantare a squarciagola un’opera in italiano. Era una forma di comunicazione tra noi, indimenticabile”,
Altro paesaggio, altra star?
“Sul set con Madonna, Swept away, una troupe piccola, una scena dopo l’altra. Dovevamo girare al tramonto una scena con noi seduti sul dolly, con lo sfondo che si muoveva. Ci lasciano soli sulla spiaggia, in pausa. Lei tira fuori la chitarra: ‘Vuoi che ti canti una canzone?’, ‘Si’. E intona La Isla bonita, sbagliando il primo accordo con la chitarra. Io la guardavo come un cretino. Mi rendo conto che era la prima volta che qualcuno mi dedicava una canzone. E che a farlo era Madonna, guardandomi negli occhi. Ho fatto finta di niente, ma che emozione”.
Disavventure?
“Qualche volta ho rischiato il licenziamento. Una volta, facevo l’operatore, ho sfocato Cate Blanchett. Un’altra, a 19 anni, il primo grande film americano con un direttore della fotografia severissimo – Rotunno. Un set gerarchico, eravamo soldati, non ti potevi sedere, fumare. C’era una famosa attrice internazionale – il nome non lo faccio – che si era invaghita di me. Io un asceta, chiaramente. Lei deve girare una scena di baci con il co-protagonista in un albergo illuminato. Io nel buio, a trenta metri, alle prese con le cassette della macchina da presa. La scena non veniva, lei era nervosa. Dopo venti ciak lei mi individua e viene verso di me, uscendo dal set illuminato con le macchine da presa che la seguono, arriva – la troupe che guarda stupita – e mi dice ‘non posso fare questa scena’. Io mi vedo cacciato a pedate, faccio finta di nulla “ora tu vai e fai la scena”. Lei va e fa la scena. Arriva il direttore della fotografia ‘tu, tutto bene’, ‘io sì, non so cosa voglia sarà pazza’. Specifico che non c’era stato niente tra noi. Mi aveva fatto capire che gli piaceva il ragazzino italiano, magari si era fatta un film. A me faceva anche un po’ paura, era strana”.
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E, invece, un set magico?
“Un momento di passaggio nella carriera di operatore. Mi chiamano come seconda macchina sul set di Una pura formalità di Tornatore. Film già iniziato. La prima inquadratura – quelle di Tornatore sono difficili – è con Depardieu. Mi viene il terrore di sfocare, distratto dal talento straordinario di Depardieu. E poi la prima inquadratura alla macchina, nella scena del bosco. Monto la macchina da presa su un albero, il macchinista non c’è, Tornatore dice ‘giriamo’. Ecco la mia prima ripresa, da un albero, sotto l’acqua, con Tornatore e Depardieu”.
È il momento del ricordo tragicomico.
“Fuori dal set. Io – a differenza di molti colleghi – sono sempre a disagio, come se non appartenessi a un certo mondo, da festival. Faccio cose goffe. Una sera a Venezia, anni fa ho una serata alla Peter Sellers di Hollywood. Quando ci penso sudo. Madonna presentava un film lì. Io la chiamo, concordiamo di vederci a una cena riservata di Salma Hayek e del marito in cui si premiavano donne del cinema, tra cui Jessica Chastain. Madonna era stata chiamata per consegnare un premio. Io aspetto il momento giusto e vado a salutarla, un po’ brillo. Ero al tavolo con altri attori ‘vai e presentacela’ e io ‘ma anche no’. Vado da lei, ci parlo, ma la vedo stranamente tesa. Non mi accorgo che la stanno per chiamare sul palco, microfonata, ripresa in mondovisione. Piomba l’occhio di bue su di lei, finalmente capisco e realizzo la mia inadeguatezza esistenziale. Sento qualcosa che mi strattona il braccio, lei che dice: ‘Devo andare, devo andare, I need my hair’, mi accorgo che lei tirava con la testa un ricciolo attorcigliato nel bottone da polso del mio smoking. Panico. Non so come riesco a scioglierlo, lei è già sul palco che parla, io pietrificato mi sento dire ‘levate!’, perché ero riuscito anche a mettermi davanti le telecamere che riprendevano la serata. Ma non era finita”.
Cosa può esserci ancora?
“Affranto, subito me ne vado ‘sei inadeguato’, mi dico. Vado alla famosa Palazzina G, ancora frastornato, sono in fila per entrare, nella folla dei paparazzi incrocio, lei stava uscendo un’attrice argentina che conoscevo, ““ciao Adriano”, era la fidanzata, al tempo, di Al Pacino, che esce dietro di lei. Lei dice a lui qualcosa su di me, lui mi guarda, in mezzo a duecento flash, io vado per salutarli, lui mi dice una cosa che non capisco mi avvicino per sentire meglio e nel farlo gli do una testata sul naso. Ho sentito il ‘crack’. Poi l’ho guardato pensando: Scarface ora farà qualcosa. Lui stordito mi guarda incredulo e se ne va”. Il giorno dopo sono partito per Roma “Non devo stare in questi luoghi”.
Invece negli ultimi anni la sua carriera sta andando bene. Le sue interpretazioni in Adagio di Sollima che Supersex, in cui interpreta il fratello di Siffredi sono state notate e lodate.
“Li ho girati quasi in contemporanea, uno di notte l’altro di giorno, orari incostituzionali. Di Supersex devo dire che all’inizio ero scettico, spaventato da un personaggio così emotivo, incapace di gestire i sentimenti. È Macbeth, Amleto, Romeo, ogni scena ne combina di tutti i colori, mi sembrava tanto da gestire. E poi il dialetto, per me ostico, e invece da un ostacolo è poi diventato uno strumento. Alla fine, è stata una esperienza profonda. Con Rocco Siffredi (al momento dell’intervista non è scoppiato il ‘caso’ con la giornalista) com’è andata? ‘Ci siamo sentiti una volta, volevo capire di più di suo fratello, del contesto, ma ho capito che il personaggio era stato reinventato, così non ho più approfondito ma poi magicamente lui ha ritrovato cose che lo hanno profondamente turbato”.
La domanda: “Perché una serie su Siffredi” se l’era fatta?
“No, il mio personaggio è estraneo la mondo del porno, con Jasmine (Trinca, ndr) e Alessandro (Borghi) rappresentava la colonna vertebrale, emotiva, sentimentale, romantica. L’aspetto della pornografia non mi interessava, poi sul perché fare una serie su Siffredi, beh sì, perché no?’.Un buon momento, per lei. ‘Sì, da un po’ di tempo e rispetto a qualche anno fa, sento di stare dove devo, mi sento a posto. Ho girato un altro film, Sei fratelli, una commedia con Scamarcio e Bellè, e sono sul set della serie A.C.A.B, sempre per Netflix. Interpreto un celerino. La supervisione è di Stefano Sollima, la regia è di Michele Alaique, che gira benissimo”.
In una recente intervista lei ha parlato del dolore per la morte di suo fratello, a diciannove anni.
“Una questione delicata. L’ultima volta che ne ho parlato mi ha fatto male. Sono cose troppo delicate. Tutto poi diventa un calderone, da Instagram in cui vedi i cagnolini piangenti e poi i bimbi con le case in macerie. Diventa un po’ troppo, tutto. Tutto quello che dici viene spacchettato, gonfiato, moltiplicato”.
Quali sono le passioni oltre al set?
“Scrivo favole, in alcuni momenti in cui arriva l’ispirane, di getto. Spesso non riesco a finirle, ma mi piace tanto. E sto con i miei cani. Ne ho due, uno mio e uno di mia moglie. Il mio è Alma, il suo Uma, il mio labrador, il suo un cane corso che è diventato un labrador, ha crisi di identità perché è buonissimo. Li ho avuti fin da bambino. Il primo, Nerone, me lo portarono via “non te ne occupi”, lo mandarono da amici in campagna, quanto piansi. Andando via di casa a diciott’anni presi al canile Giotto, pastore belga che portai con me in Transilvania, era vecchio, non volevo lasciarlo. E poi mi piace fotografare, niente telefonini, una piccola macchina professionale per fermare i momenti belli”.
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Perché è andato a vivere da solo 18 anni?
“Perché già lavoravo da operatore e guadagnavo. Non ero solo, c’era Giotto”.
Lei è un figlio d’arte che ha fatto una gavetta lunga.
“E a quei tempi era dura, non come oggi, era; ‘metti la cera togli la cera’ anche senza motivo e a me che ero figlio d’arte “la cera” me la facevano togliere di più. Dodici anni in cui ho imparato tanto, non protestavo mai. Ho lavorato con autori e registi grandi: De Laurentiis, Olmi, Tornatore. Il cono d’ombra di papà l’ho sentito poco. Non sono cresciuto con mio padre, i miei si sono separati che avevo meno di un anno. Sono cresciuto con mamma che era doppiatrice, non vivevo il set con papà, l’ho conosciuto dopo, lavorandoci. Non che non abbia frequentato i set di Fellini e Visconti, ma meno di altri figli d’arte. Mio padre non faceva feste, è sempre stato riservato, non ho conosciuto con lui il mondo del cinema, ma da operatore con un percorso mio. Presto ho sentito che ero nel posto che era il mio in cui meritavo di stare. Da attore la cosa cambia, certo, anche perché il destino ha voluto che facessi papà nel remake di un film suo… è stato paradossale”.
Il debutto da regista?
“Lo dico da anni, ho ripreso a lavorarci. Ho tre idee, dipende anche dal budget. Dico solo che non girerò a Roma, mi piace andare in posti estremi della natura, restituire il senso del viaggio, in situazioni comunque ‘fuori’”.
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