Ascanio Celestini: “Ascolto storie e le racconto, riparo la realtà come mio padre restaurava mobili”
Salina (Messina) – Al SalinaDocFest diretto da Giovanna Taviani, Ascanio Celestini vince il premio Ravesi dedicato agli autori al confine tra i linguaggi, tra i passati vincitori il premio annovera Saviano, Yoshua, Vicari. E, in un incontro che diventa spettacolo, l’artista ragiona a proposito della responsabilità ma anche della ricchezza nel rapporto con storie vissute nella realtà e sul rapporto tra parola e immagini.
“Il tema è: come raccontiamo le cose, e cosa raccontiamo” esordice Celestini. “Cosa possiamo e dobbiamo raccontare? Di storie belle ce ne sono tante, ma non siamo sicuri che interessino noi. Quando ho iniziato questo lavoro, dieci anni fa, volevo raccontare Guernica, la preparazione della Seconda guerra mondiale, e invece ho raccontato un barbone, una barbona, un magazzino logistico. Basta, per raccontare una storia, il fatto che sia bella? Se racconti, deve esserci qualcuno che ascolta. E non possiamo pensare troppo a lui, per non perdere le nostre coordinate”.
Invecchiando perdiamo le parole
“Invecchiando ci rendiamo conto che perdiamo proprio le parole, in senso generale. Non parliamo più la stessa lingua dei ventenni, dei quindicenni, o meno. Dobbiamo imparare altre parole, e rischiamo di parlarla male, la lingua. Se studi russo, quando lo parli davvero? Nella realtà – qualunque cosa voglia dire questa parola nell’antropologia, nella letteratura, nella filosofia – c’è sempre qualcosa che non sappiamo e possiamo conoscere. Nella scrittura che nasce dalla documentazione a cui arrivi, c’è qualcosa di interessante: nella letteratura, nel teatro, nel cinema – che sia fiction o resti totalmente nella documentazione – questa è una scelta di stile, che dipende anche dal proprio gusto e dalla capacità. E da chi ti paga. Ma il lavoro di documentazione narrativa sta a monte. Raccolgo una storia perché mi piace il racconto. Ma se lo faccio da solo, arrivano i luoghi comuni: quello che torna dal campo è triste e non racconta. E invece, se vai a parlare con chi ha vissuto quella storia, scopri cose per te inaspettate”.

Immagine senza immaginazione
“Il cinema non è per forza ‘immagine senza immaginazione’. Esiste un grande cinema che riesce a produrre immagini dalle immagini — o anche senza immagini, come in Tarkovskij, ma non solo, anche in un cinema molto più semplice. Però resta un problema: se io vedo una sedia, non penso ‘questa è l’immagine di una sedia’, anche perché, nel momento in cui lo penso, la sedia è già inquadrata con un tavolo. E se comincio a vedere qualcosa del genere, non seguo più neanche quel minimo di storia che magari il film vuole raccontare. Invece, quando leggo un libro, il segno è grafico, è scritto. Quando ascolto una storia, anche solo quella di mio cugino, che è tornato da Salina dopo una vacanza, parlando mi fa immaginare il luogo dove è stato. E lui stesso, mentre ne parla, lo immagina. Tant’è che, quando chiediamo a una persona dove sta la farmacia, per esempio, quella persona non ci dà una spiegazione urbanistica o topografica. Pensa al percorso che farebbe, perché c’è stata. Ti dice: scendi le scale, arrivi sulla strada, vai a sinistra, passi la piazza, anche se non sa come si chiama quella via, sa che la farmacia sta lì. E magari aggiunge: è aperta adesso, ho visto l’orario prima. Se ti devo raccontare cosa ho mangiato oggi a pranzo, io rivedo quello che avevo nel piatto. Non descrivo tutto nei dettagli, Io vedo, e da quello che rivedo — perché l’ho visto — parlo. E questa è la produzione dell’immagine. Il teatro, forse ancor più della letteratura, perché le parole corrono veloci in scena, ma ovviamente anche nella letteratura e nella musica, ci spinge a immaginare. Siamo noi a produrre le immagini. Nel cinema, questo rischia di diventare un problema”.
Riparare la realtà
“Penso al lavoro che ha fatto mio padre per tutta la vita: restauratore di mobili. Quando lavoravo con lui — non molto, ogni tanto gli serviva una mano per trasportare i mobili — andavamo nelle case, quasi sempre di gente ricca (perché ormai solo i ricchi restaurano i mobili a gommalacca, a mano). Prendevamo mobili malmessi, li portavamo in bottega, li sverniciavamo, li restauravamo, li rilucidavamo e poi li riportavamo indietro. Era lo stesso mobile, ma diverso. Non li riportavamo ‘come nuovi’, ed è importante: se li rendi nuovi, allora cancelli la storia di quella persona. Invece tu le ridai il suo pezzo, ma adesso funziona. Il lavoro che penso di fare io è proprio questo. Con un po’ più di libertà rispetto a mio padre, certo. Nel nostro lavoro la trasformazione può essere più forzata, può cambiare, può diventare più interessante, più narrativa. Sempre con rispetto. Rispetto le storie anche perché cerco di essere una persona rispettosa. Ma le rispetto anche perché ne ho bisogno. Se non me la racconti tu, la storia, dove la pesco? Me la sogno di notte? Posso anche sognarla, ma se me la racconta qualcuno, è diverso. Da solo non ce la faccio. Molti scrittori cominciano così: con la famiglia, l’infanzia, la scuola, le vacanze, ma poi si esaurisce. Anche se hai avuto un’esperienza straordinaria, a un certo punto basta. Mungi, mungi, e si esaurisce. E visto che nel mondo siamo miliardi, vale la pena approfittarne”.
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