Bandabardò, c’è ancora musica: “Nel nome di Erriquez sorridiamo ancora”

Erriquez ha detto “aloha” quattro anni fa eppure si percepisce ovunque nel primo disco della Bandabardò senza di lui. C’è, si è solo messo il mantello invisibile, e gli altri hanno scalato di posto, trovando un nuovo assetto per comporre dieci inediti, cantare, e non disperdere un repertorio che mette di buon umore migliaia di fan. Finaz non è più solo il chitarrista pirotecnico ma anche la prima voce, e ne esce comunque un disco in stile “banda”, Fandango, fuori il 28 marzo. Anzi, un disco a tratti “vecchia banda”, con un ritorno al flamenco e alla rumba, intrecci di ska, surf, folk, rock (citando anche Neil Young), e un brano che spicca, dal titolo Canzone blu. Tutto ostinatamente pieno di vita, sebbene sia dedicato ad altri due amici scomparsi: Massimo Cotto e Paolo Benvegnù. Del resto, la Bandabardò è una nave-famiglia che nel tempo ha tirato un sacco di gente a bordo, musicisti e non. Raramente si è visto un gruppo così orizzontale.

Addio a Erriquez, voce e anima ‘scatenata e libera’ della Bandabardò

Ognuno ha spazio, ognuno è personaggio, ognuno è indispensabile, perciò, anche senza fulcro, ha ragione di esistere. Ci teneva a spiegarlo Enrico Greppi, hidalgo cortese, scaccianuvole che sapeva acchiappare pensieri belli con il retino della poesia: «La banda è nata come ditta onesta, senza appalti truccati, con gusti e caratteri diversi ma afflitta da spirito di squadra, e poi è diventata comunità. A desiderare di più, saremmo pazzi». Per lui è stata scritta Notti di luna e falò con Carmen Consoli, una specie di processione circense, perfetta unità di misura per un addio. Quanto siamo tristi in una scala da uno a Notti di Luna e falò? Ci si fa male, ad ascoltarla. «Però insieme si affronterà anche questa» dice Finaz. In fondo la tristezza, se condivisa, diventa gratitudine. E addio non è, perché nessuno resta quanto di chi se ne è andato via così amato. Siccome dal 1993 il gruppo toscano fa ballare anche quando non si deve, siccome somiglia a uno di quegli aggeggi che estraggono sostanze buone, separandole dalle nocive, e siccome concerti così dovrebbe passarli il servizio sanitario nazionale, «la festa riprende e rincontriamo la nostra gente in tour». Partenza 1 aprile dall’estero, poi in Italia dal 25 aprile.

Finaz, nel 2021 pensavate di sciogliervi ed eccovi qui.
«Non sapevamo immaginarci senza Enrico. Poi c’è stata la collaborazione con Cisco (Bellotti, ex Modena City Ramblers ndr) e dal vivo percepivamo che il pubblico non voleva proprio salutarci. Ci siamo detti: se c’è tutto questo calore, se riusciamo ancora a comunicare, forse dovremmo andare avanti».
Com’è stato ripartire?
«Restava lo spirito con cui ci siamo formati e che abbiamo portato sempre in giro, ma Enrico non si poteva sostituire con un altro cantante, l’unica soluzione era che lo facessi io. Non è stata un’impresa facile. Parliamo di un gigante, artisticamente parlando, e di un fratello. Gli altri mi hanno spronato, e mi sono fatto coraggio».
A volte la sua voce somiglia a quella di Erriquez e Daniele Silvestri.
«I miei cantautori preferiti. Ho avuto la voce di Enrico nelle orecchie per trent’anni, e per altrettanto tempo la mia lo accompagnava nei cori, quindi esiste quasi un gioco di specchi, di rimandi. Credo suoni normale anche al nostro pubblico».
Siete durati più di un matrimonio. Altri gruppi hanno fatto in tempo a sciogliersi e ad imbastire reunion. Il segreto?
«Crediamo nel nostro progetto e, anche quando cambiano i tempi, non cambiamo noi. Dall’inizio l’idea era contagiare con l’allegria, mai tralasciando i contenuti, mai ignorando il lato sociale. Abbiamo fatto tanta gavetta, su tanti bellissimi furgoni scassati, ci siamo ascoltati, abbiamo detto tanti no, quando compromettevano la nostra etica o ci sembravano divisivi. L’obiettivo era andare a dormire felici e con la coscienza leggera. A qualsiasi costo».

Live sempre pieni, e tutto senza il supporto di radio, tv e social.
«Sembrava un’utopia, invece è successo. Siamo la dimostrazione che l’improbabile può trasformarsi in possibile. Succederà è un po’ il nostro motto».
L’ottimismo come scelta. Funziona ancora?
«È più importante che mai. Non ce la si fa più a leggere notizie devastanti, c’è bisogno di ritrovarsi, stare insieme, riconoscersi. Il sorriso, poi, arriva».
In Manca poco raccontate la storia vera di Ivan e Abel. Cosa vi ha colpito?
«La solidarietà sembra sparita, ma poi le storie ti sorprendono. Era una gara podistica: Abel è convinto di aver già tagliato il traguardo, e Ivan, poco dietro, può approfittare e sorpassarlo, invece incita l’avversario perché “manca poco”. Abel vince la corsa, Ivan vince la gara della vita. Noi siamo cresciuti con la convinzione che l’importante è partecipare. Vince chi gareggia con dignità. Stravince chi non lascia indietro nessuno. Nel brano citiamo Orwell in 1984: “L’importante non è restare vivi quanto restare umani”».
Orwell torna in La fattoria.
«È un ribaltamento. Nel libro La fattoria degli animali, gli animali avevano comportamenti umani, qui invece sono gli uomini a comportarsi come bestie. Ma noi non cediamo alla distopia, siamo sognatori ad occhi aperti. È un “supepotere”, titolo di un’altra canzone, dove abbiamo chiamato un coro di bambini di Lucca. In mezzo a questo fandango, le nuove generazioni faranno meglio di noi».

Fandango è un titolo perfetto per voi. Come non averci pensato prima?
«Infatti, suona molto Bandabardò e ha almeno quattro significati: è una danza andalusa, ritmo che ci è caro; il titolo di uno dei miei film preferiti, dove quattro amici in viaggio, crescendo, devono prendere decisioni anche dolorose; è il termine spagnolo per dire “caciara”, quella che ci piace fare; è sinonimo di confusione, smarrimento, tipico di quest’epoca».

Notti di luna e falò è un assalto al cuore.
«Abbiamo cercato di raccontare Enrico usando alcune sue parole. Ci sembrava più rispettoso. Non poteva che essere un valzer malinconico, e ci abbiamo aggiunto ocarina, fisarmonica, strumenti che lui amava».

Com’è entrata Carmen Consoli nel progetto?
«È un’amica con la quale abbiamo condiviso molto. Ci serviva un finale orchestrato e lei, in questo, è maestra assoluta. Ha fatto un arrangiamento morriconiano e le è venuta l’idea di un intervento parlato. Poi ha voluto cantare. E quando entra lei… brividi».
Un pezzo simile ci ha messo quattro anni a uscire.
«Non volevo, anzi ero proprio contrario, perché c’è ancora tanta emozione intorno a Enrico e qualcuno poteva pensare che la sfruttassimo. Ha vissuto la sua malattia senza spettacolizzare il dolore, e ci ha insegnato la discrezione. Però ci manca, e la musica continua ad essere la nostra forma di espressione, quindi la canzone è venuta fuori, contro ogni volontà, e ammetto che è stato liberatorio. Non so come farò a cantarla dal vivo. Spero davvero che il pubblico mi aiuti. Sarebbe un bel rito collettivo».

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