Barbara Ronchi è “Elisa”: “La colpa non si giudica, resta per sempre”

VENEZIA – Elisa è una donna che porta dentro una colpa insopportabile, e il film che porta il suo nome la segue nel cammino fragile e doloroso di chi tenta di rimettere insieme i pezzi della propria vita. Barbara Ronchi la racconta senza difese, con quella verità che le appartiene, in un viaggio di scoperta nel passato e dentro sé stessa, per capire se è pronta a rientrare nella società. Leonardo Di Costanzo (01 Distribution, in sala dal 5 settembre), è ispirato al saggio sulla giustizia riparativa Io la volevo uccidere di Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali (su Stefania Albertano, condannata a vent’anni per l’omicidio della sorella e il tentato omicidio dei genitori) restituito però con una dimensione profondamente umana ed esistenziale.

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Chi è Elisa e che viaggio compie nel film?

“All’inizio Elisa vuole scoprire la verità su sé stessa e le sue azioni. Ma, nel profondo, quello che desidera davvero è fare un percorso volontario, essere pronta, sapere chi è lei, prima di ritrovare il mondo fuori. Il carcere è un luogo dove puoi buttare la chiave, non fare nessun tipo di lavoro su te stesso, pensare solo a sopravvivere. Lei invece vuole occuparsi del dopo, vuole essere una persona pronta a ritornare cambiata — non migliore, ma con la piena consapevolezza di sé”.

Nella realtà, la donna raccontata da Ceretti si chiama Stefania Albertani ed è stata protagonista in televisione di una famosa intervista di Franca Leosini.

“Ho visto la trasmissione. Avevo la sensazione che in televisione accadesse un cortocircuito: lì diventiamo tutti un po’ attori delle nostre storie, no? Mi dava la sensazione che non fosse profondamente lei, che facesse una distinzione tra la sé di prima e la sé di adesso. Invece il percorso che ha fatto con il criminologo è stato di totale accettazione di quella che è, cioè le due persone coincidono. E quindi il discorso diventava più ampio. Era il dire: ‘Io sono questa e da questo devo partire per conoscermi profondamente’. Non una rappresentazione migliore di sé, ma una rappresentazione onesta di sé”.

Quanto è importante raccontare persone al di fuori dallo stigma del giudizio?

“Penso che ci sia già la giustizia a giudicare e a dichiarare colpevole o innocente. Nel momento in cui la giustizia fa il suo corso, noi abbiamo il compito, come attori, come registi, di raccontare la complessità che c’è dietro una condanna, dietro un titolo di giornale che è sempre scarno e intellegibile a tutti. Noi abbiamo il dovere di raccontare quella complessità”.

Lei ha parlato di un personaggio segnato da colpa e paura. Come si è posta, da attrice, tra il rischio del giudizio e la possibilità di provare empatia verso di lei?

“Il dolore più grande è quello di chi si rende conto davvero di ciò che ha fatto, sapendo che non ci sarà mai liberazione. Lei è condannata per sempre, anche se nel carcere può in qualche modo scomparire: tutti sanno, ma la vita va avanti. Eppure sa che un giorno uscirà e dovrà tornare nel mondo, e quella sarà la condanna vera. La mia vicinanza è nata leggendo le sue paure: il fallimento, il non sentirsi mai abbastanza, il timore di non essere amata, di distruggere tutto quello che toccava. Ma anche il desiderio di essere di più, migliore, e l’incapacità di dire no, di liberarsi da certi legami, di trovare la sua strada. Non l’ho mai giudicata per la colpa, perché la colpa resta, aleggia per sempre. Ho voluto piuttosto capire quanto fossimo lontane io e lei. La distanza arriva in quell’attimo di onnipotenza narcisistica che le ha fatto credere di poter avere una nuova vita togliendone una a qualcun altro. Ma fino a quel punto, tutte le sue paure le riconosco”.

Che cosa significa essere qui alla Mostra di Venezia e che ricordi forti ha di questo luogo?

“Venni alla Mostra la prima volta con Sole di Carlo Sironi, che era in Orizzonti, e poi da lì c’è stato Mondo Cane di Alessandro Celli, c’è stato Padre Nostro di Claudio Noce in concorso, e poi lo scorso anno con Diva Futura in concorso e con Famiglia di Francesco Costabile. Quest’anno con Elisa. È un rapporto che negli anni si è costruito, è cresciuto, e sono molto felice, molto emozionata di questo primo film in concorso da protagonista per me”.

Un ricordo forte?

“La prima volta credo sia stata con Padre Nostro, perché era la prima volta che vedevo un film in Sala Grande. Era l’anno del Covid e mi ricordo il Lido mezzo vuoto, tutti con le mascherine, la sala dimezzata. Quello era un ricordo che coincideva con una delle situazioni più emozionanti della mia vita, però nel frattempo la realtà entrava dentro il cinema e ti ricordava che fuori c’era qualcosa che in quel momento ci terrorizzava”.

Lei è ormai un volto riconosciuto del cinema d’autore, ma la grande popolarità le è arrivata con la serie Imma Tataranni. Che cosa ha significato quella esperienza anche dal punto di vista della popolarità?

“Io sono molto grata a Imma Tataranni, alle cinque stagioni che abbiamo fatto e che adesso ci apprestiamo a terminare, perché questa sarà l’ultima. Per me era importante rimanere dall’inizio alla fine in questo progetto: iniziarlo e finirlo, perché quella è davvero una famiglia che si è costruita col tempo. Vanessa Scalera è una delle mie più care amiche e in più ho sentito davvero l’affetto del pubblico. Penso che quello che abbia colpito le persone sia questo sentimento di amicizia che lega queste due donne così diverse, che sono un po’ il contrario l’una dell’altra, però nonostante questo si completano, si vogliono bene senza giudicarsi, senza voler cambiare l’una l’altra. Credo sia stata proprio l’amicizia tra le due quello che ha fatto innamorare il pubblico”.

Quando ha deciso che voleva diventare attrice?

“Ho sempre voluto fare questo lavoro già da quando ero bambina, però mi vergognavo a dirlo. Era un ambiente che non conoscevo, non faceva parte della mia famiglia. Poi ho fatto tante cose, mi sono laureata in Archeologia classica, ho seguito un altro percorso e sono arrivata in Accademia che ero la più grande della classe, perché avevo 24 anni. Sono uscita a 27 ed ero una rarità: di solito si comincia a 18 e a 21 si inizia a lavorare. Io ho cominciato tardi, ma pensavo che la mia strada sarebbe stata il teatro. Invece ho incontrato Bellocchio: durante uno spettacolo la casting venne a vedermi e mi chiamò per i provini di Sorelle mai, il mio primo film con Marco Bellocchio. E lì mi sono innamorata del cinema”.

Che cosa aveva visto in lei Marco Bellocchio?

“No, non me lo ha mai detto. Però è stato un incontro che mi ha insegnato tanto. Sono stata fortunata, perché è stata la mia educazione sentimentale al cinema, con il pudore di Bellocchio nel raccontare certe storie, nel tenere l’attore sempre dietro un personaggio e mai dietro sé stesso. Lui costruisce personaggi con molta cura, sia nella scrittura che nella direzione, ed è questo pudore dei sentimenti che mi è rimasto”.

Qual è stata una situazione tragicomica che le è capitato di vivere su un set?

“Le prime piccole parti in televisione: devi arrivare al segno, fermarti, la luce deve illuminare in quel punto, la distanza giusta con le macchine… Io sbagliavo sempre, e quindi era sempre: stop, ricominciamo; stop, ricominciamo. Finché delle comparse, con molta più esperienza di me, a un certo punto mi spiegarono come fare. Fu divertente, perché furono loro, le comparse, a insegnarmi il mestiere sul set”.

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Eleonora Duse e Valeria Bruni Tedeschi hanno detto che dentro di loro vive una bambina di quattro anni che non vuole mai scendere dal palcoscenico. È così anche per lei?

“Ma certo. C’è assolutamente la voglia di sentirsi amati, guardati, riconosciuti. E oltre alla voglia di piacere c’è anche la voglia di non smettere mai di giocare, come una bambina di quattro anni: avere meno retaggi mentali possibili, buttarsi nelle cose e giocare per davvero, non per finta. I bambini giocano per davvero, ed è quello che dovremmo ricordarci sempre”.

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Durante questa Mostra c’è stata anche la manifestazione per Gaza. Quanto è importante per Lei partecipare a queste iniziative?

“Credo sia importante partecipare, perché è l’unico modo che abbiamo per far sentire la nostra voce. Noi possiamo fare dichiarazioni, ma quello che conta è sempre il gruppo, la massa. In tanti si può: tanti pesciolini possono allontanare un pescecane. La forza è sempre quella delle persone tutte insieme che fanno sentire la loro voce”.

Per la prima del film ha scelto un abito di Giorgio Armani. Che eredità lascia alla moda italiana?

“In tanti abbiamo scelto di indossarlo, è un modo onorare le opere d’arte che ci ha lasciato. Ha elevato con la sua semplicità la bellezza della donna e dell’uomo in un modo che resterà per sempre intorno a noi. La sua scomparsa è’ stata una notizia tremenda”.

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