Blixa Bargeld: “Visioni di follia per pura voce”
“Danzare l’Apocalisse” è la frase con cui era solito definire quello che facevano gli Einstuerzende Neubaten, uno dei gruppi di avanguardia musical-rumorista più influenti in assoluto, Blixa Bargeld, leader e voce -ma non certo nei canoni comunemente intesi. Nati a Berlino nel 1980, i Neubauten hanno ridefinito i confini della ricerca musicale europea con un suono che mette insieme post-punk, avanguardia, neoespressionismo, krautrock, performance art e musica concreta.
Blixa è anche noto per la lunga collaborazione con Nick Cave e anche per aver iniziato una proficua collaborazione con il musicista italiano Teho Teardo con cui ha realizzato diversi, interessanti album. Infatti lo incontriamo a Roma proprio nello studio di Teho “Stiamo lavorando a un nuovo progetto” spiega Blixa. Questa volta però lo vedremo in altra veste per lo spettacolo Flammenwerfer, produzione di teatro musicale firmata dalla compagnia danese Hotel Pro Forma con la regia di Kirsten Dehlholm e Marie Dahl, che debutta in prima nazionale venerdì 26 settembre 2025, al Teatro Argentina nell’ambito del Romaeuropa Festival (in replica fino al 28 settembre). Al centro della scena c’è Blixa, insieme all’ensemble vocale scandinavo IKI.
Flammenwerfer esplora la vita e il tormento creativo del pittore svedese Carl Fredrik Hill, che dopo una diagnosi di schizofrenia paranoide trascorse anni in isolamento producendo oltre 4.000 opere, molte delle quali oggi custodite al Malmö Konstmuseum. La partitura fonde le musiche originali e i testi di Bargeld, gli arrangiamenti vocali di Marie Dahl, il sound design di Erik Medeiros e alcune composizioni di Nils Frahm. Scene, costumi e proiezioni sono affidati a Henrik Vibskov, Jesper Kongshaug e Magnus Pind – artisti di punta della scena visiva contemporanea.
Com’è nata la collaborazione con Hotel Pro Forma?
“Tramite i consueti mezzi della tecnologia moderna. Mi hanno mandato una mail con una proposta. Poi ho incontrato la regista assistente, Marie Dahl. Mi hanno illustrato cosa volevano fare. E mi sono detto: interessante. Ma sono sempre davvero molto scettico verso le cose multimediali. Non è proprio la mia modalità preferita di espressione artistica. Ero davvero molto, molto scettico, fino all’inizio delle prove. Mi chiedevo se sarebbe stata davvero la mia tazza di tè. Però il loro modo di lavorare mi ha sorpreso, e positivamente. Mi ha sorpreso perché il risultato mi è piaciuto moltissimo. Mi ha proprio colpito il modo in cui lo hanno portato in scena. Non credo che si possa parlare di spettacolo multimediale, in realtà non c’è nemmeno tanta tecnologia, come si potrebbe pensare. È più che altro una messa in scena che incorpora tante tradizioni virtuose del teatro contemporaneo. Kirsten Dehlholm, la regista aveva una certa età, infatti è mancata poco dopo la première. Si percepiva tutta l’esperienza che aveva nell’organizzare, nel mettere in piedi le cose: si vedeva che sapeva quello che faceva. Quindi, per me, la sorpresa è stata positiva perché non avevo quel senso di delusione che spesso mi capita davanti agli eventi multimediali”.
Ti hanno cercato perché, con gli Einstürzende Neubauten, avevi già realizzato un album intitolato “Drawing of Patient OT” dedicato a un altro pittore schizofrenico?
“Recentemente ho ricevuto un libro da un antropologo tedesco che parla di David Bowie che va in visita a Gugging, dove viveva OT: tutto il libro è su Bowie al Gugging (un’istituzione artistica che ospita artisti con disabilità mentali diventato famoso per la produzione di Art Brut, ndr). Incredibile. Bowie andò lì e incontrò OT e tutti gli altri artisti famosi… Li ospitavano e li trattavano come tali. Bowie ci è stato, ha fatto dei disegni, ha parlato con tutti, ha incontrato OT. L’autore del libro me l’ha mandato dicendo che io sono stato il primo che gli ha fatto conoscere OT. Qui invece parliamo di Frederick Hill, che ovviamente io non conoscevo prima. Credo che Frederick Hill non abbia avuto molta fama fuori dalla Svezia, o dalla Scandinavia. La più grande collezione delle sue opere è a Malmö, dove abbiamo anche fatto la prima dello spettacolo. Era un paesaggista molto noto, poi gli venne diagnosticata la schizofrenia. Fu ricoverato, poi riportato a casa, dove continuò a disegnare e dipingere fino alla fine della vita, ogni giorno. Ha prodotto una quantità impressionante di opere, visse ancora molti decenni così. Non dico che lo spettacolo sia su Frederick Hill, ma penso sia stato preso come ispirazione per la performance, la messa in scena. Per tutta la durata del lavoro, ci sono delle garze. Io sono davanti a queste garze e dietro ci sono le cinque donne del coro Iki. Queste garze sono retroilluminate, si fanno delle sovrapposizioni con dipinti e così via. Funziona bene, in modo quasi magico, come ci si aspetterebbe da Robert Wilson ai suoi tempi migliori”.
Quanto ha richiesto il processo di scrittura, composizione e messa in scena?
“Sono stato contattato circa due anni prima della première, mi hanno mandato le opere di Frederick Hill e ho cominciato a pensare al progetto. Poi, forse sei mesi prima che si iniziasse a mettere in scena, ho fatto qualche sessione di registrazione e ho creato il materiale che sentite nello spettacolo. Quindi, in scena, io canto su cose mie, anche il coro esegue cose scritte da me. C’è anche della musica aggiuntiva di Nils Frahm, che non era stata composta apposta per lo spettacolo: sono dei brani strumentali molto belli, non miei, ma si capisce bene la differenza tra le mie parti e quelle preesistenti di Nils Frahm”.
Lo spettacolo è strutturato…
“In diversi… Non vorrei sbagliare, sarebbe meglio chiedere a Lisbeth o a Marie Dahl. Credo siano cinque segmenti: uno sulla schizofrenia, uno sulla sessualità, ma non ricordo con precisione. Ci sono sezioni diverse, con dei titoli. Quel che ha bisogno di traduzione è proiettato in sottotitoli”.
Ti hanno dato libertà totale?
“Sì, mi hanno lasciato abbastanza libero di fare ciò che volevo. Ho dovuto scrivere qualcosa anche per il coro femminile IKI. Fanno anche la vecchia “Halber mensch” dei Neubauten, in coro, in modo straordinario. Sono rimasto sbalordito: improvvisamente cantano questo pezzo e penso, cavolo, avevi ventitré anni quando l’hai scritto! Ed è ancora attuale, ha ancora senso. Wow. Amo la mia ma anche la loro versione. Nessuno aveva mai provato a farne una versione, loro ci sono riuscite molto bene”.
Non ne aveva fatto una versione anche la compagnia di teatro butoh Biakko-sha? Ricordo un video incredibile…
“Non è però la stessa cosa: in quel video la versione era la nostra e loro la danzavano. Qui invece sono gli Iki che la cantano. Non so che fine abbia fatto Bykko-sha. Sono ancora attivi?”
Ho appena visto uno di loro a Bolzano, a Transart: recitava in uno spettacolo, delle CocoRosie, “La mort de la mere”. Quindi probabilmente sì…
“Parecchio tempo fa ho incontrato il regista del film, Sogo Ishii, all’ultima Berlinale. Ora non si chiama più Sogo Ishii, ma Dragon Ishii. Ha cambiato nome. Ha fatto una versione di uno degli ultimi lavori di Kobo Abe di cui ottenne i diritti vent’anni fa, si intitolava The Boxman. “L’uomo scatola”. Ha fatto il film di The Boxman, e gli ci sono voluti vent’anni per realizzarlo”.
Hai visto il film?..
“Sì, l’ho visto”.
Ti è piaciuto?
“Sì, molto. Dragon Ishi è davvero unico nel panorama cinematografico giapponese. È fuori dai circuiti di produzione abituali, deve procurarsi i fondi in modo diverso. Non è facile in Giappone come altrove, forse ancora più arduo in Giappone”.
Tu sei stato una superstar in Giappone…
“Per due mesi, sì. Solo due mesi! Ok, diciamo due anni… ma poi basta”.
È strano: la tua proposta non è mai stata mainstream…
“Ma per i giapponesi aveva senso in quel periodo. E anche per Sogo Ishii aveva senso: facemmo il film, ci incontrammo durante un soundcheck a Berlino: Sogo Ishii si presentò lì perché era la Berlinale. Proiettarono la sua pellicola “The Crazy Family”, una metafora feroce della società giapponese. Voleva vedermi. Mi disse una sola cosa: “Next film, more Neubauten”. Non sapeva l’inglese. Così, quando andai in Giappone, dissi alla casa discografica: “Vogliamo fare un film con Sogo Ishii”. Sogo Ishii era famosissimo a causa di quel film e di “The Crazy Thunder Road”, quello di prima. Così, la casa discografica era entusiasta: finanziarono il film. Sogo Ishii è ancora oggi molto fiero di quella pellicola, è diventata un punto importante della sua biografia. Stiamo cercando di recuperarla, digitalizzarla, migliorarne il sonoro. Abbiamo parecchio materiale, possiamo renderlo possibile”.
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Sì, perché io l’ho visto in versione NTSC lo standard giapponese…
“Esisteva una vera copia in pellicola da 16 millimetri, che era della Directors Society tedesca, che finì anche in alcune sale. Ma è sparita. Bisogna trovare i materiali insieme a Dragon Ishii, recuperare il tutto. Lui ci tiene molto, anch’io penso sia importante per la nostra storia e carriera”.
E ancora oggi non parla inglese?
“Ricordo di averlo incontrato a Londra, quando tentava di imparare l’inglese, negli anni Ottanta. Ma deve aver dimenticato tutto”.
La collaborazione tra musica e arte visiva ha cambiato qualcosa nel tuo modo di lavorare?
“No, non ha cambiato granché il modo in cui ho fatto musica lì. Ci sono sempre cose che vogliono che abbassi di volume perché risulta doloroso a chi ascolta”.
Come è stato il tuo rapporto con la regia?
“Nessun problema. In realtà non si tratta di uno spettacolo teatrale in senso stretto, non c’è dialogo né recitazione. Io salgo, canto il mio pezzo ed esco. È teatro musicale, e basta. Non esiste mai un istante senza musica. Non c’è dialogo o testo che non sia accompagnato dalla musica. Lo classifico come teatro musicale: si tratta di musica che porta con sé anche molte altre cose, sull’esistenza, l’espressione artistica… Ma è fuorviante definirlo “esperienza” o cose simili. Se fossi uno spettatore, direi che è uno spettacolo. In certi momenti è anche visivamente travolgente. Non esci pensando “voglio studiare Frederick Hill”, non è quello. Non vuole insegnare nulla.
Da dove viene il titolo “Flammenwerfer” (lanciafiame)?
Deriva proprio dall’idea di “distruzione”. Hanno provato varie cose e sono arrivati a quello. Il Flammenwerfer. Viene da un disegno di Hill. Non so bene che creatura sia: sembra un animale, forse un leone”.
Con l’ensemble vocale Iki interagisci sul palco?
“Sono dietro la “garze”. Io davanti. Abbiamo dei pezzi che cantiamo insieme, quindi sì, interagiamo musicalmente. Sono davvero brave, mi fa piacere lavorare con loro”.
Parliamo del protagonista: il tema della fragilità mentale viene spesso rimosso o stigmatizzato…
“Non lo chiamerei “protagonista”: non appare in scena”.
Ah, ok.
“È solo un rimando visivo, non è veramente un personaggio. A Malmö hanno la più grande collezione delle sue opere, quindi ci sono tanti disegni, molti di quelli che si vedono sono sue opere. C’è già una multidimensionalità, non è uno slideshow statico. Le cose capitano insieme e su piani diversi, con luci differenti. I costumi delle Iki sono straordinari: a un certo punto salgono sui piedistalli, le gonne si gonfiano sempre di più finché sembrano delle enormi piante di… aglio! Sì, la mia associazione è l’aglio. Sono fatte così perché vengono gonfiate da sotto. Molto curiosa, davvero ben riuscita. Complimenti”.
Ti ha colpito il tema: la fragilità mentale, la personalità del pittore, anche vedendo cosa hai fatto tu…
“Posso dire… c’è un’affinità. Sono sempre stato, e l’ho detto molte volte, un grande ammiratore di Antonin Artaud: storia simile, artista istituzionalizzato con problemi mentali seri. Ci si può relazionare. Non ero una scelta sbagliata per questo lavoro: sono noto per non fare musica pop, quindi potevo avvicinarmi a qualcosa di fuori da quei confini”.
Oggi il problema della salute mente coinvolge sempre più i giovani, forse per il Covid, o chissà…
“Questo però non è uno spettacolo che voglia insegnare nulla, né fare dichiarazioni sulla salute mentale. Si ispira all’arte di Frederick Hill, legata al suo vissuto, all’ospedalizzazione e alla schizofrenia. Ma non parla direttamente di quello. Prende ciò che è, cerca di inserirlo in un contesto che sia anche intrattenimento. Non avrei mai partecipato se fosse stato un progetto solo avanguardistico, privo di valore di intrattenimento. Mi vedo come un intrattenitore d’avanguardia. Faccio cose non noiose. Gli artisti accademici non si preoccupano se annoiano. Io sì, voglio evitare la noia. E questa volta mi sono detto, beh, è buono”.
Esiste secondo te una “normalità”?
“La normalità è una parola pericolosa, no? È un terreno scivoloso. Io non opero con quel concetto”.
Schizofrenia: spesso ha valore artistico, molti schizofrenici sono artisti…
“Sì, o il contrario. La schizofrenia… non so nemmeno come verrebbe diagnosticata oggi. Nei documenti che ho visto non è chiarissimo quali fossero i suoi disturbi. Ma nelle sue opere si trovano molti temi ricorrenti: sessualità, mitologia, religiosità. Temi che si ritrovano spesso negli schizofrenici, sono punti fissi. Se guardi OT, invece, lui aveva perso la percezione del proprio corpo: disegnava teste, tante braccia e gambe, mai il corpo. Quindi non era disforia del corpo. Hill ha preso la strada della mitologia, della religione: molto legato all’humus della Svezia del XIX secolo, protestante, anti-edonista, dove la sessualità si mischia a tutto questo. Se vuoi capire la schizofrenia, devi cercare là. E penso, da profano, non da medico, che la schizofrenia abbia radici, si può capire da cosa nasce. Ho rapporti personali con persone schizofreniche e posso vedere da dove derivano i loro problemi. Ma, come dicevo, lo spettacolo non parla di schizofrenia. Ne parlo io, ma non è il tema. Lo spettacolo non parla “di” qualcosa”.
Forse parla della visione?
“Credo sia piuttosto una “resurrezione” di opere che nell’Ottocento erano viste come frutto di una malattia mentale, e che oggi possiamo guardare in modo diverso”.
Ho visto un frammento su Internet in cui interpreti la parte sull’ansia, forse. Cos’è questa “ansia”?
“Sì, c’è una parte che si chiama proprio così ed è abbastanza difficile da ascoltare”.
Molto interessante.
“Grazie”.
Come fai a interpretarlo? In quel caso è la tua voce pura o viene filtrata o amplificata con degli effetti?
“Solo voce, tutte voci. Niente strumenti. E le voci non sono nemmeno trattate. Voce vergine, come viene. Nessun effetto. I tecnici vorrebbero abbassare il volume,perché è inquietante. Ma sì, il punto è questo: è tutta voce, acrobazie vocali. Se sovrapponi due voci su una frequenza molto alta, oscillano, fanno vibrare gli ossicini nelle orecchie, e se vibra l’orecchio, la stanza scompare, non localizzi più nulla. E succede qualcosa come vento oscillante, solo con la voce, un effetto fisico. Provoca disagio fisiologico, soprattutto al primo ascolto. So bene cosa ottengo perché lo sto facendo da decenni”.
Conosci il compositore italiano Demetrio Stratos?
“Certo, ovviamente, era greco però”.
“Sì, hai ragione: viveva in Italia e suonava con un gruppo italiano, gli Area prima di dedicarsi allo studio della voce, aveva studiato anche il canto Tuva…”.
Diamanda Galas mi ha parlato di lui. E anche Pauline Oliveros, la grande Oliveros”. “Diamanda è stata anche la mia compagna, per un po’. Eravamo la coppia super dell’avanguardia. Che storia”.
Davvero?
“Siamo stati insieme, per un po’. Tutti spingevano perché fossimo una coppia, ma è una storia lunga. Un’altra volta magari. Ora non so che fine abbia fatto, da tempo non la vedo. Stiamo parlando degli anni ’80…”.
Nick Cave: “La mia conversione: Dio soffre come me e la musica ci consola”
Ho incontrato anche un altro tuo vecchio amico, Nick Cave. La vita è dura per lui, dopo la morte di due figli: cerca di affrontarla con la musica…
“Sì, usa musica e religione per uscire da tutte le sue dipendenze. Vero. Io non ho mai avuto dipendenze. Per cui non ho dovuto trovare Gesù”.
Non so se è credente ma di sicuro ha bisogno di un dio…
“Io sono un dio… Come diceva Bertolt Brecht: se ti posso aiutare, lo faccio, ma se hai bisogno di un dio, allora ti serve davvero…”.
Hai letto Nietzsche?
“Certo”.
Che ne pensi?
Sono suo amico. A me viene sempre in mente, quando si parla di Nietzsche, il film di Lina Cavani e il libro di Agamben…
“Al di là del bene e del male” è un grande film ha colpito molto anche me.
Poi c’è il “Nietzsche reader”, di R. J. Hollingdale. Ottimo libro per capire Nietzsche.
In Italia all’inizio era considerato un nazista, per fortuna i primi traduttori, Giorgio Colli e MAzzino Montinari hanno cambiato tutto, le prime traduzioni erano contaminate dall’ideologia nazista della sorella che le aveva manipolate.
“Giusto, la sorella. Difficile parlare di Nietzsche senza considerare sorella, Hitler e così via”
Ho letto anche il libro di Klossowski…
“Su Nietzsche e il circolo vizioso? Sì, ricordo di averlo letto sul tour bus quando ero in tour in America. La sua forza poetica è enorme. Se lo prendi dal verso sbagliato, lo guardi da dietro, come nel film della Cavani. Ma se te lo godi con il sorriso, hai capito”.
Hai nuovi progetti?
“Abbiamo appena iniziato il prossimo disco con Teho. L’ultimo ci ha messo una vita per uscire, causa pandemia. Lo abbiamo iniziato credo nel 2021, ed è uscito solo l’anno scorso. Ora stiamo lavorando ai nuovi pezzi. Vedremo dove ci porterà… È iniziato a piovere”.
Direi che abbiamo finito. Sai che Theo ha appena presentato la colonna sonora per Marco Bellocchio?
“Un’altra colonna sonora? No, Non lo sapevo. Anch’io ho avuto una canzone in un film a Venezia, “Silente Friend”, che si svolge tutto nell’Orto Botanico dell’Università a Marburg, del regista ungherese che ha fatto “Body and Soul”. Ho registrato un brano vent’anni fa, che non avevo mai usato: è finito lì, ha preso anche un premio. Ma tra di noi non ci confrontiamo sui premi”.
Blixa Bargeld (pseudonimo di Christian Emmerich, nato a Berlino nel 1959) è una delle personalità più influenti della musica e dell’arte performativa internazionale. Fondatore e frontman degli Einstürzende Neubauten, ha portato sulla scena un’arte sospesa tra teatro d’avanguardia, rumorismo ed espressionismo sonoro, utilizzando materiali industriali, oggetti d’uso e modulazioni vocali estreme nelle sue performance. Dal 1984 al 2003 è stato chitarrista e co-autore dei Bad Seeds di Nick Cave
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