Chalamet a Berlino: “Dylan mi ha insegnato che in politica bisogna stare alla larga dai salvatori”

BERLINO – Felpa sportiva a strisce gialle e nere, sciarpetta di stoffa sottile, Timothée Chalamet porta alla Berlinale imbiancata di nevischio, la sua aria festosa e timida, deciso a contrastare l’etichetta di divo glamour e/o impegnato. Accolto da una folla che si allarga disciplinata all’entrata posteriore dell’hotel Hayatt l’attore, ventinove anni, è unico testimonial, qui, di A complete unknown, il suo viaggio nell’universo nel corpo e nella voce di Bob Dylan che lo vede candidato agli Oscar.

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“Sono orgoglioso di averlo interpretato. Mi fanno tanti complimenti, mi dicono che farò grandi cose, ma cosa mai potrà esserci più dell’esperienza che ho vissuto incarnando l’artista più grande per cinque anni e mezzo?”.

Ha accettato la sfida del film, ad alto rischio, “perché si tratta di un incomparabile artista, Bob Dylan, e l’enorme eredità che ha lasciato. E prima ancora di immergermi completamente nel progetto, sentivo già che stava lasciando una mappa per altri artisti da seguire. Essendo un attore e non un musicista, trovavo ciò una grande fonte d’ispirazione. Poi c’era James Mangold, la sceneggiatura che ha scritto. Alla fine questo processo di cinque anni e mezzo mi ha dato più di qualsiasi altra cosa su cui abbia mai lavorato. È stato un dono che continua a darmi ancora oggi. Quindi, ci sono stati molti fattori, ma il principale era l’uomo, il mito, la leggenda: Bob Dylan, e il desiderio di far parte della sua visione del mondo”. È dieci chili per il ruolo, “ho solo mangiato molto. Il Bob Dylan del 1965-66, che il film non esplora, era magro e forse provato dall’esperienza di girare il mondo. Ma quello che arrivò a New York nel 1961 era fisicamente diverso, aveva più peso rispetto a me in quel momento. Quindi si trattava di avvicinarmi alla sua fisicità in quegli anni”

Bob Dylan sceglie senza compromessi la sua arte individuale, separando estetica e attivismo. “Dylan lascia un’eredità complicata in questo senso. – spiega Chalamet, che con il musicista si è rapportato in modo profondo fino a godere del suo appoggio assoluto – Era in tensione con l’idea di essere considerato il salvatore della sua generazione. Nei primi anni ’60, la sua musica era profondamente riflessiva, ma quando la generazione di Woodstock prese forma, lui non andò a Woodstock. Mentre Joan Baez e altri andavano alle marce, lui registrava Nashville Skyline e Blonde on Blonde.” Dylan quindi, separava arte e attivismo. “La mia interpretazione è che la scrittura politica fosse solo una delle tante texture attraverso cui esprimersi. Nei primi anni ’60, le sue ispirazioni erano Buddy Holly, Little Richard, Elvis Presley. Quando arrivò a poter suonare con una band, quando la cultura musicale era dominata da Beatles, Rolling Stones, Kinks, penso che più che una questione politica fosse semplicemente più divertente suonare rock and roll. Non si è mai voluto far incasellare come attivista, anche se la sua musica era molto riflessiva. Ci sono stati momenti in cui ha fatto dichiarazioni forti, come al Live Aid, che poi hanno ispirato il Farm Aid di Willie Nelson. Quindi non è che la sua opera fosse completamente apolitica, ma ha sempre rifiutato di essere etichettato”. A chi gli chiede cosa gli ha insegnato Dylan su come guardare al presente risponde Non penso sia una domanda politica, ma è nella natura della sua musica mettere in guardia contro figure messianiche. Senza parlare per lui, perché è vivo e sta bene a Malibu, la mia interpretazione è che il suo messaggio fosse di diffidare di chiunque dica di avere la soluzione”.

Chalamet racconta come ha imparato a suonare la chitarra “Alcuni fan di Dylan pensano che il suo modo di suonare la chitarra sia migliorato negli anni ’80 e ’90. Negli anni ’60 non era ancora un chitarrista straordinario, il che per me, che non ero esperto, è stato un sollievo. Ho avuto cinque anni e mezzo per prepararmi, e il suo stile negli anni ’60 era caratterizzato da colpi di plettro molto decisi. Sono davvero orgoglioso della mia versione di A Hard Rain’s A-Gonna Fall nel film.

Non ho mai affrontato la preparazione in modo accademico, è stato tutto per osmosi. Ho vissuto immerso nel suo materiale, giorno e notte, non per obbligo, ma perché Dylan è diventato un faro per me. Il suo individualismo e il suo rifiuto di conformarsi mi hanno guidato per tutto questo viaggio”.Le scene per lui più emozionanti “sono state le scene dei concerti. Ricreare il Newport Folk Festival è stato incredibile. È stato un progetto in cui sapevo che l’esperienza di girarlo sarebbe stata insostituibile. È stato magico e probabilmente questa è l’ultima volta che ne parlerò. Ho viaggiato per due mesi raccontando questa storia, ma amando così tanto quest’uomo e questo film, potrei farlo per un anno intero. Questa è stata un’opportunità irripetibile: ho avuto cinque anni e mezzo per studiare Dylan e il suo tempo. Negli anni ’60 bastava uscire per strada e tutto era innovativo. Quegli spiriti esistono ancora oggi, ma devi cercarli con più attenzione”. Sorride, Calamet, “abbiamo lavorato con sessione di musicisti straordinari, alcuni dei migliori di New York. Le scene del Newport Folk Festival e degli studi della Columbia Records sono state incredibili. Stavamo ricreando un periodo che ha visto protagonisti artisti come Nina Simone, Bob Dylan, Jimi Hendrix, Joni Mitchell. Prima di questo film ascoltavo soprattutto musica contemporanea, le hit del momento. Ora invece vedo chiaramente il legame tra quegli anni e la musica di oggi. Ho avuto la fortuna di interpretare Dylan, e mi sento come se avessi vissuto in un universo parallelo, in cui ho potuto essere lui per un po’”.

Con quali criteri Timothée sceglie i ruoli, quale il filo conduttore tra Dylan, Paul Atreides di Dune, Laurie in Piccole donne… “Non so se ho un’estetica definita, ma mi interessa interpretare personaggi complessi. Non voglio rivelare troppo di me stesso attraverso i ruoli, ma scelgo storie che mi affascinano e mi sfidano. Il mio criterio è piuttosto semplice: cerco un grande regista con cui lavorare e parto da lì. Sono stato fortunato con tutti i progetti che avere citato: Greta Gerwig per Piccole donne, Denis Villeneuve per Dune, Luca Guadagnino per i suoi film. I personaggi erano già lì, ben scritti sulla pagina. Quindi non posso dire che sia un processo più complicato di così. Vorrei dare una risposta più pretenziosa, ma la verità è questa. Se posso aggiungere qualcosa, penso che sia importante mantenere una certa serietà nel proprio lavoro. Sono orgoglioso di essere qui, ero già stato al Festival di Berlino con Call Me By Your Name e One and Two, e ora sto partecipando con film sempre più grandi. Ne sono felice e non mi tiro indietro. Non voglio dare una risposta che qualcuno potrebbe guardare su YouTube e pensare: “Ma chi si crede di essere?”. La verità è che cerco solo di lavorare con grandi registi”

Il film mostra Bob Dylan alle prese con la fama e le aspettative del pubblico, una situazione che Chalamet conosce bene: “Alcune scene del film o del documentario di D.A. Pennebaker, Don’t Look Back, mi hanno colpito a livello viscerale. Ma non è un processo intellettuale. È qualcosa che ti accade, più che qualcosa che parte da te. Non ho tratto una grande conclusione da tutto ciò, tranne che bisogna tenere la testa bassa e concentrarsi sul proprio lavoro, come ha fatto Bob Dylan. Dopo Blonde on Blonde, ha avuto l’incidente in moto ed è sparito per un po’. Ecco, non so quanti fan di Bob Dylan ci siano qui, ma questa è la mia riflessione”.

Nel film Dylan scrive a Johnny Cash: “Il successo mi ha polverizzato”. Per Chalamet è stato diverso: “Dovrei dare una risposta criptica e pretenziosa, ma la verità è che no. Mi sento semplicemente felice di essere qui. Sono un grande fan del cinema, studio il settore e voglio che il cinema funzioni. Oggi le cose sono diverse rispetto agli anni ’90 o 2000, e il pubblico guarda più film sui propri dispositivi che in sala. Ma sapere che questo film, che non era un successo garantito, sta funzionando mi dà fiducia”.

L’ultima parola su Dylan, chiudere il tour e la lunga esperienza: “Sento di aver fatto l’anti-Bob Dylan e di aver parlato fin troppo di questo film! Ma se devo aggiungere qualcosa, voglio sottolineare il lavoro incredibile di tutto il cast: Edward Norton, Monica Barbaro, Elle Fanning. Siamo tutti grati per questa opportunità, perché sappiamo quanto sia raro un progetto del genere. Guardando il programma del Festival di Berlino, vedo molti film intellettuali e artisticamente ambiziosi. Negli Stati Uniti questi progetti sono più difficili da realizzare oggi rispetto agli anni ’90 o 2000. Penso a film come Rounders con Edward Norton: non si fanno più così spesso. Perciò lavorare a A Complete Unknown è stato un dono. Sono incredibilmente grato a Bob Dylan, a James Mangold, agli Studios che hanno reso possibile tutto questo e al Festival di Berlino per aver dato una piattaforma al film. Spero che il pubblico lo apprezzi, perché è un film che invita a entrare nel suo mondo, non allontana con la sua pretesa di grandezza. È per questo che ne sono così orgoglioso”.

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