Cinema, Trump e l’incubo dazi sull’industria dei sogni
Sull’industria dei sogni è calato l’incubo dazi. “Del cento per cento, su tutti i film prodotti all’estero che entrano nel nostro Paese”, ha scandito Donald Trump sul suo social, Truth. Hollywood sperava di restare fuori dalla guerra commerciale: i film sono considerati servizi e non beni, e le produzioni audiovisive, come le grandi aziende tecnologiche, sono tra i maggiori surplus commerciali degli Usa.
I blockbuster incassano soprattutto nel mercato estero, i guadagni dei contenuti stranieri in Usa sono irrisori. “L’industria americana muove velocemente, altri Paesi offrono incentivi per attrarre registi e studi, Los Angeles e altre aree sono devastate. È uno sforzo concertato da parte di altre nazioni e una minaccia per la sicurezza nazionale». Secondo Hollywood Reporter uno dei suoi divi ambasciatori, Jon Voight (gli altri due sono Sylvester Stallone e Mel Gibson) avrebbero incontrato associazioni e studi per discutere di una proposta a Trump per incrementare la produzione interna con un incentivo cinematografico nazionale. Ma il presidente ha ribaltato la prospettiva, gettando Hollywood nella confusione e preoccupazione. In apertura di Wall Street i titoli di Disney e Netflix sono calati rispettivamente del 3 e 6 per cento, meo 4 per Warner Brothers Discovery. Il Guardian riassume lo stato d’animo generale nel titolo: “i dazi di Trump sono progettati per distruggere l’industria del cinema internazionale”.
Sono tante le questioni da chiarire, dunque: solo cinema o anche streaming? Che succede al film già prodotti o in corso di produzione? E cosa significa i film “prodotti all’estero”, vale anche solo per le scene girate fuori dagli Usa?
Il problema affrontato da Trump è reale ed è chiaro che il primo obiettivo è colpire gli studi che esternalizzano. Da anni gli studi girano i blockbuster all’estero, esempi ultimi sono Avatar, l’ultimo Mission Impossible – The final reckoning, girato principalmente nel Regno Unito, negli studi Longcross nel Surrey, ma anche a Malta, in Norvegia e Sudafrica, oltre che su una portaerei americana attraccata in Italia. il campione dell’anno Minecraft, girato tra Nuova Zelanda e Canada. I Paesi che più gettonati sono Canada, Regno Unito, Nuova Zelanda, Australia. Ma un conto è girare film “esotici” che necessitano di location iconiche o paesaggi tolkeniani, altro è produrre film ambientati in America ma girato in Canada per risparmiare.
E che Los Angeles langue lo certifica un rapporto recente di FilmLA, organizzazione che gestisce i permessi per città e contea: da gennaio a marzo le riprese sono calate del 22 per cento. Dopo lo sciopero le produzioni non sono mai tornate a livelli di un tempo. Molti si sono spostati di stato, approfittando degli incentivi statali interni. Gettonata la meta di Atlanta, dove la Marvel ha girato parte di Thunderbolts*: lì c’è un credito di imposta statale del trenta per cento. La produzione in generale negli Stati Uniti è calata del quaranta per cento nell’ultimo decennio.
Ma i nuovi dazi porterebbero risultati? Studios e indipendenti girano all’estero per risparmiare: negli Usa, in assenza di incentivi fiscali, come nel Regno Unito, in Eurpa (e Italia), in Australia, costa il 30,40 per cento in più che in altri Paesi. In più i costi delle troupe americane sono molto più alti: serve, quindi, ed era questa la manovra di partenza di Voight e produttori, uno “sconto statale”.
Il risultato dei dazi. Cioè delle reazioni ad essi da parte degli altri Paesi, sarebbe quello di danneggiare soprattutto il mercato americano. Se da una parte il deficit commerciale sui beni fisici degli Usa riguarda quasi tutte le nazioni, l’intrattenimento, dicevamo, esporta quasi un triplo rispetto a quanto importa: restando a un esempio europeo, nel 2023 i film americani si sono aggiudicati il 71,1 per cento dei biglietti cinematografici venduti. Se la ritorsione dei governi degli altri Paesi portasse a un aumento dei prezzi dei biglietti dei film americani all’estero, con un effetto devastante per Hollywood.
Che Hollywood rifletta una visione opposta del proprio Paese e del mondo rispetto a quella di Trump è stato fotografato dagli ultimi Oscar: la tendenza dell’Academy è aprirsi alla diversità, negli ultimi anni abbiamo visto il coreano Parasite e il francese Anatomia di una caduta aggiudicarsi i massimi premi. Ma se le case di distribuzione che fanno la differenza in termini di statuette, Neon, Mubi, Sony classics eccetera, potrebbero in caso di dazi al cento per cento permettersi di acquistare titoli artistici francesi, tedeschi, coreani, italiani?
Infine i capitoli spinosi degli effetti speciali – le società sono neozelandesi, canadesi, europee: i dazi valgono anche per la post produzione? E infine le co-produzioni, fondamentali per arrivare alle cifre necessarie di un film come The brutalist di Brady Corbet come la valanga di action movie alla Jason Statham e Lian Neeson, produzioni a medio budget che spesso di avvantaggiano degli incentivi fiscali europei.
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