Cinque anni senza Gigi Proietti, quel sorriso immortale tra palco e vita
Pensare a Gigi Proietti, che se ne è andato cinque anni fa nella stessa data in cui era nato, il 2 novembre, porta con sé il sentimento della nostalgia e il sorriso. La nostalgia per quanti sorrisi ci ha regalato e di quanto era stupendo il suo, di sorriso, sul palco, mentre gli occhi zigzagavano a destra e sinistra. Sulla coincidenza di date lui ironizzava: “Un compleanno il giorno dei morti, e chi se lo dimentica più”. E’ stato uno degli artisti più completi della scena italiana: attore, regista, cantante, autore, maestro di generazioni. Amato come pochi, in modo trasversale.
E’ morto a ottant’anni, dopo un grave scompenso cardiaco, il 2 nvembre del 2020. Fino a poche settimane prima era ancora attivo, lucido, curioso. La morte lo ha colto in piena pandemia, quando il lutto era un lusso trattenuto. Eppure, anche nel silenzio forzato di quei giorni, il suo addio ha fatto rumore.
Proietti nasce nel 1940 a via Giulia, cresce al Tufello. “Ma non mi chiedete nulla di via Giulia, non ricordo niente”, scherzava. Dopo il liceo si iscrive a Giurisprudenza, ma abbandona gli studi a pochi esami dalla laurea. Per mantenersi si esibisce nei locali romani: “Cantavo nei night, e mi sentivo già su un palcoscenico”.
È lì che inizia a trovare la sua voce. Per caso entra al Centro teatrale universitario della Sapienza. Scopre un ambiente che lo travolge: “Mi sono iscritto per curiosità e non sono più uscito”.
Dagli anni Sessanta comincia una carriera che attraversa sessant’anni di spettacolo. Con Il dio Kurt di Alberto Moravia riceve i primi riconoscimenti. Poi arriva la chiamata di Garinei e Giovannini per Alleluja brava gente, dove sostituisce Domenico Modugno. “Da lì è cambiato tutto,” raccontava, “perché ho capito che il teatro poteva essere leggero e profondo insieme”.
Edoardo Leo e Carlotta Proietti portano alla Festa di Roma il doc ‘Luigi Proietti detto Gigi’
Negli anni Settanta, con A me gli occhi, please, rivoluziona il monologo teatrale: un one-man show fatto di comicità, poesia e improvvisazione, che rimane nella storia. Nel frattempo, lavora al cinema: La Tosca di Luigi Magni, con Monica Vitti e Vittorio Gassman, Le farò da padre di Lattuada, Casotto di Sergio Citti, con Jodie Foster, La proprietà non è più un furto di Elio Petri, fino alla commedia culto Febbre da cavallo di Steno, che lo trasforma in “Mandrake” per sempre. “Quel film è diventato più famoso con gli anni. All’inizio non se lo filava nessuno”, ricordava ridendo.Il cinema lo ritrova nel 2002 con Febbre da cavallo – La mandrakata di Carlo Vanzina, e poi nel 2019 con il Mangiafuoco del Pinocchio di Matteo Garrone. “Un ruolo bellissimo,” dice, “un uomo che mente ai bambini per educarli, come fanno gli attori con il pubblico”. Garrone lo descrive “dolce e generoso”, ricorda l’emozione di averlo visto recitare dal vivo nel ruolo di Mangiafuoco.
L’eredità artistica di Gigi Proietti è vasta e viva, radicata in una concezione del teatro come mestiere, linguaggio e responsabilità civile. Ha dimostrato che si può essere popolari senza essere superficiali, colti senza essere distanti. In un Paese in cui il confine tra intrattenimento e arte è sempre fragile, Proietti ha insegnato che la qualità non dipende dal luogo — teatro, televisione o cinema — ma dall’onestà con cui si affronta la scena. Diceva spesso che “la comicità è una cosa seria”, e in quella frase c’è tutto il suo metodo: il rigore del lavoro, la precisione del gesto, la libertà dell’improvvisazione“.
Attore, regista, cantante, autore, ha attraversato decenni di spettacolo portando con sé un linguaggio inconfondibile, capace di mescolare l’alto e il basso, Shakespeare e la barzelletta, Dante e Petrolini. La sua voce, duttile e profonda, ha dato vita a personaggi indimenticabili sul palco e dietro lo schermo: da De Niro a Stallone, da Hoffman al Genio di Aladdin. È reso il romanesco la lingua dell’intelligenza e dell’ironia, restituendo dignità e musicalità a una parlata troppo spesso ridotta a macchietta. Dell’esperienza da doppiatore raccontava: “feci il primo ‘Rocky’ ma poi ero sempre in giro e non potevo, ho doppiato Marlon Brando che aveva una voce un po’ stridula. La mia prova migliore è stato il Lenny di Dustin Hoffman. Il genio di Aladdin è stato divertente ma faticoso”
Ma la parte più duratura del suo lascito è forse quella del maestro. Al Brancaccio e poi al Globe Theatre di Villa Borghese ha formato generazioni di attori, trasmettendo il valore dell’impegno e della disciplina. “Il talento da solo non serve, bisogna faticare,” ripeteva. Non era un pedagogo tradizionale: insegnava lavorando, mostrando, correggendo con ironia, pretendendo la precisione e la curiosità. Da lui sono passati molti volti del teatro e della televisione italiani, che ancora oggi ne riconoscono l’impronta. Diceva: “Io non mi sento tanto saggio né maestro di vita. Anche se qualche volta alle mie figlie e ai miei ex allievi della scuola di recitazione ho detto qualcosa e, anni dopo, mi hanno richiamato per dirmi ‘avevi ragione’. Fino a 20 anni fa era meno difficile dare indicazioni, l’attore è un mestiere che lavora sul sociale, ed è importante”.
‘Luigi Proietti detto Gigi’, il trailer del documentario di Edoardo Leo
.Nel suo modo di intendere il teatro, non c’era distinzione tra arte alta e arte popolare: c’era solo la verità del palcoscenico. Con A me gli occhi, please ha reinventato la formula del monologo, portando in scena se stesso e la vita quotidiana, il gioco e la poesia. Con Il maresciallo Rocca ha conquistato il pubblico televisivo, dimostrando che si può parlare a milioni di persone senza perdere autenticità. Con Febbre da cavallo ha creato un mito che ancora oggi attraversa le generazioni.
E poi c’è la voce civile, quella di chi ha saputo restare dentro il proprio tempo. Fino agli ultimi mesi, nel pieno della pandemia, lancia un appello con il tono dell’amico più che del personaggio: “Restiamo a casa, così finisce prima e potremo annà ‘ndo ce pare”. L’uomo e l’attore non si separano mai.Il suo amore per Roma — la città “che vista dall’alto è una cosa, vista da sotto un’altra” — è diventato parte integrante della sua eredità. Oggi i murales che lo ritraggono nei quartieri popolari raccontano meglio di qualunque statua la gratitudine di una città che si riconosce nel suo sorriso.
Di Gigi Proietti resta una lezione: il pubblico non è un giudice ma un compagno di viaggio; l’attore non è un genio ma un artigiano; la risata, se nasce dal vero, è una forma di conoscenza. È questa la sua eredità: un modo di intendere l’arte come lavoro, servizio e dono, e di ricordarci, ogni volta che si apre il sipario, che la vita, come il teatro, “non si può rifare: ogni sera è l’ultima”.
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