David Lynch. La sua musica è una colonna sonora per viaggi in mondi dolci, selvaggi e lontanissimi
L’uccellino appollaiato sull’albero, la strada sterrata, un agglomerato di capannoni industriali che emettono fumo bianco sullo sfondo e due ciminiere in primo piano, una più alta dell’altra, ma da cui non esce niente e che portano – a livello inconscio – già al numero due, il doppio, il doppelgänger che dell’opera di David Lynch è la cifra. E poi: una fresatrice al lavoro su degli ingranaggi da cui scaturiscono scintille (“il fuoco cammina con me”), il gigantesco tronco di legno, la strada – eterno mito americano – e il cartello che recita “Welcome to Twin Peaks – Population 51201” con le due vette innevate, le due cascate, l’acqua scura che riflette il colore grigio del cielo e che poi scorre placida. Uno strano senso di inquietudine, un’emozione indefinibile per un’atmosfera che sembra invece così bucolica e rilassante.
Twin Peaks e la magia di ‘Falling’: il brano (immortale) di Badalamenti
Era il 9 gennaio del 1991 quando, su Canale 5, gli spettatori italiani si trovarono davanti a quella che sarebbe stata considerata la prima serie tv capace di veicolare nel mondo mainstream un immaginario perturbante che metteva in crisi le certezze del sogno americano, rivelando l’orrore dietro la normalità della sonnacchiosa provincia americana. Ma tutto questo non sarebbe successo senza le musiche di Angelo Badalamenti che accompagnano le immagini di Lynch con una musica tranquilla, quasi languida, che però sembrava serbare in seno una strana malattia, qualcosa che non va.
David Lynch & Lykke Li: “I’m Waiting Here”
Quelle stesse note che nelle scene iniziali della prima stagione suonano lente e dilatate e, a tratti, sporcate da un rumore – come un fischio d’allarme – che non si riesce a cogliere a meno di ascoltare con attenzione, mentre il taglialegna Pete Martell (Jack Nance, uno degli attori-feticcio di Lynch, già protagonista di Eraserhead) esce di casa con la canna da pesca e Josie Packard (Joan Chen) si guarda allo specchio (ancora il doppio) e sussurra a sua volta quello stesso tema musicale che, ovviamente, non può sentire. Poi, mentre una campanella suona non lontana, Martell nota un pacco di cellophane vicino alla scogliera (l’ultimo album di Lynch con la musicista Chrysrabell si intitola Cellophane memories: una coincidenza? Molto probabilmente, no). Si avvicina: avvolta nella pellicola c’è una donna dai capelli biondi. Pete compone il numero di telefono della polizia: «She is dead», dice. E inizia così la lunga saga che dal 1991 (un anno prima in America) avrebbe tenuto il mondo con il fiato sospeso per trovare la risposta alla fatidica domanda: «Chi ha ucciso Laura Palmer?».
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Ma a poco a poco ci si sarebbe resi conto che in realtà a David Lynch non interessava troppo rispondere a questa domanda o, almeno, non solo. Puntata dopo puntata avremmo capito che erano molto importanti ruote di ventilatori che girano, luci che sfarfallano, telefoni che squillano, fiamme di accendini che si accendono, nani che ballano, logge segrete, personaggi che parlano con una voce modificata e rallentata, luoghi della mente, particolari insignificanti: la musica certo, ma anche e forse ancora di più, i rumori di Angelo Badalamenti. E insieme a lui la cantante-feticcio che nessuno conosceva prima dell’apparizione nei film di Lynch, prima in Blue velvet con Mysteries of love e poi con brani diventati famosissimi come Falling, Into the night, Rockin’ back inside my heart, Nightingale e The world spins.
David Lynch, musicista e regista nel nuovo video
La chiave di lettura alle sue colonne sonore la offre lo stesso Badalamenti con Industrial symphony No. 1: the dream of the brokenhearted, una performance dal vivo sul “cuore selvaggio” dell’amore, tema principe di Twin Peaks ma anche di un altro capolavoro come Mulholland Drive o, appunto, Wild at heart, titolo originale appunto di Cuore selvaggio. Qui tra seghe che tagliano ceppi di legno, sirene, ritmi sincopati, voci eteree, il soffiare del vento, corpi fluttuanti, rumori estremi, interazioni corpo-macchina come insegnava il Crash di Ballard, ballerine vestite da sposa con le piume in testa, bambole-feto fluttuanti e un demone dalle corna di cervo accompagnato da un indicibile rumore di macchinario, si scopre il vero senso di “industrial”, come appunto recita il titolo della sinfonia. Un tipo di suono anti-music che appare già dai primi cortometraggi come The grandmother e, soprattutto, nel cult movie Eraserhead, primo lungometraggio di Lynch (1977) che segnano la collaborazione con il soundesigner cieco Alan Splet. Qui il rumore “è” la colonna sonora di un panorama industriale e culturale devastato, figlio della cultura punk e, appunto “industrial” di artisti-performer come Throbbing Gristle e Einstürzende Neubauten.
Come dice lo stesso Lynch, «un film è fatto al 50% di suoni. Io dai tempi di Grandmother lavoro sempre con lo stesso tecnico, Alan Splet. Insieme, attraverso i suoni, riusciamo a dare un aspetto di realtà a situazioni irreali e viceversa». Un sodalizio che continua anche con Elephant man dove appaiono sibili, fischi, battiti. E poi il respiro: il respiro di John Merrick, l’uomo elefante a cui si accompagnano le strazianti melodie della colonna sonora di John Morris fatti di organetti, glockenspiel e l’Adagio per archi di Samuel Barber come tema dei titoli di testa e della scena finale, espressamente voluto da Lynch.
E fondamentale la musica è anche nel film del 1986, Blue velvet, dove all’inizio l’apparizione del perturbante (ancora una volta) è un orecchio mozzato trovato in un prato su una sinfonia di Shostakovich a cui si contrappongono brani come la Blue velvet resa famosa da Bobby Winton, interpretata da Isabella Rossellini, Mysteries of love cantata da Julee Cruise, pezzi vintage come Honky Tonk di Bill Doggett e, sopratutto, In dreams di Roy Orbison che, con Lynch, diventa un altro pezzo rimanendo uguale.
Il successivo Cuore selvaggio è il trionfo di Elvis Presley, tra una Love me tender interpretata da Nicolas Cage, la Be-Bop-a-Lula di Gene Vincent, il thrash metal degli Slaughter House e la iconica Wicked game di Chris Isaak che porta la realtà a prendere i contorni del sogno. Del resto è tutto il film a rappresentare una sorta di interpretazione psicanalitica de Il mago di Oz.
Quello dopo, Lost highway, è un film-capolavoro dalla colonna sonora indimenticabile. Si apre con I’m deranged di David Bowie e sciorina poi il meglio della scena neo-industrial, dai Nine Inch Nails a Marilyn Manson, dai Rammstein a Trent Reznor.
Un altro film con un’accoppiata stupenda tra musica e immagini è Mullholland drive, dove Lynch utilizza per la colonna sonora brani realizzati da lui insieme all’ingegnere del suono John Neff, che lo porteranno a pubblicare nel 2001 l’album BlueBob per la sua etichetta Absurda. Lo stesso regista definirà l’album come “industrial blues”, coniugando il suono primordiale alla modernità.
Dieci anni dopo arriva Crazy clown time, un album di blues distorto dalla voce effettata con un video minaccioso e inquietante a raccontare un’altra storia di sesso, violenza e morte, come se Laura Palmer fosse un mito fondante della storia americana. Ci prende gusto e nel 2013 esce The big dream con la cantante Likke Li, dove interpreta anche Ballad of Hollis Brown di Bob Dylan e, nel 2018, un folle disco country blues con l’amico di sempre, Angelo Badalamenti.
Ma forse i più interessanti sono i tre album realizzati con l’artista Christabell, in particolare l’ultimo, Cellophane memories, dove ritorna invece l’atmosfera sospesa tra l’iperrealismo americano e il surrealismo europeo. Una sorta di iperreal-surrealtà – potremmo definirla – che è poi ciò che comunemente è entrato nel vocabolario con il termine “lynchano”. In musica è quel suono rarefatto, languido e quasi psichedelico che da un momento all’altro potrebbe trasformarsi in una minaccia e il sogno potrebbe diventare un incubo. Quel “pazzo sogno del pagliaccio” che secondo Lynch era la perfetta metafora per definire il mondo in cui viviamo. La perdita di questo grande uomo, uno degli ultimi visionari, lascia un vuoto enorme. Eppure lui, come Tim Burton, come Jim Jarmusch, come David Cronenberg, nonostante l’enorme peso nella storia e nell’immaginario, negli ultimi anni hanno sempre faticato a trovare finanziamenti adeguati per i loro nuovi progetti. Lo stile di Lynch e di questi artisti è unico, ciascuno a suo modo. Certo, forse può essere imitato ma non eguagliato. Ma all’orizzonte non sembra di scorgere nulla in grado di penetrare così profondamente nel cuore e nell’anima.
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