Falling, online su MYmovies l’esordio alla regia di Viggo Mortensen. Un film che non fa sconti a nessuno
Falling. Nel titolo c’è già tutto. Il senso di una caduta, una caduta ineluttabile, un precipitare. E anche il senso dell’inglese “to fall in love”, innamorarsi. Perché è anche, o forse soprattutto, la storia di un amore. Un amore coriaceo, duro a morire, difficile da cancellare. Da ammettere, persino a se stessi.
Presentato al Sundance film festival, poi nell’edizione “fantasma” del festival di Cannes, quella della pandemia, ora in streaming su MYmovies ONE, Falling – Storia di un padre è il primo film da regista di Viggo Mortensen.
Uno che, dopo aver fatto Aragorn nella trilogia del Signore degli Anelli, poteva continuare a sfruttare l’onda lunga di un successo planetario da attore, puntando a essere bello, sexy e “pop” per sempre. E invece, ha cercato sempre strade non banali, quando non impervie, rischiose: quattro film con David Cronenberg – che in Falling gli concede un cameo da attore – o progetti coraggiosi come Captain Fantastic (guarda la video recensione), in cui interpreta un padre hippie, ecologico e “chomskiano”, con una pletora di figli che crescono colti e selvaggi, e vivono in un bus.
Parla sei lingue, dal danese all’arabo, passando per l’italiano. Dipinge, è un apprezzato fotografo che espone in tutto il mondo. E di questo film è, oltre che regista, anche sceneggiatore, produttore, interprete – “solo per garantire i finanziamenti al film”, dice – e autore della colonna sonora. Solo un artista riusciva a essere tante cose insieme: Charlie Chaplin. Ma Mortensen non è Chaplin, e Falling non è un film comico con venature patetiche. È, al contrario, un film che non fa sconti, che ti fa bere fino in fondo l’amaro calice della realtà. Ti mostra la vita così com’è.
Il film racconta due brevi periodi di tempo in cui si ritrovano un padre e un figlio. Un padre anziano, attaccato dalla demenza senile, male che spinge alla compassione. Ma quest’uomo è ugualmente detestabile, imperdonabile. Omofobo, misogino, prepotente, conservatore. Pregiudizi razziali, sociali, sessuali ne invadono la coscienza come metastasi.
Il figlio, interpretato da Mortensen, è pilota di aerei, omosessuale. Con un marito infermiere di origine hawayana/cinese, e una figlia adottiva ispanica. Il film sta in piedi, si tiene, nella tensione dello scontro fra loro due. Il film è tutto nella durezza velenosa dei commenti del padre: la sceneggiatura intreccia nei suoi dialoghi luoghi comuni omofobi, machismo, cinismo spicciolo, sarcasmo malevolo.
E la forza del film, la sua tensione, sono nella tensione del figlio per non reagire, per non perdere il controllo, per non ridiventare l’adolescente vulnerabile che amava e odiava suo padre. È un film che cammina sul filo di una tensione terribile, e già per questo sarebbe bellissimo.
Poi ci sono gli altri: il marito asiatico, che ama con discrezione, una sorella interpretata da Laura Linney con la consueta bravura, e il padre. La cui interpretazione è affidata a Lance Henriksen, uno che ha fatto più di 250 film, in ruoli piccoli e grandi, che qui trova il ruolo della vita e non se lo lascia scappare. La sua è un’interpretazione che blocca il respiro: abbaia sconcezze e enormità, ma lascia intravedere un dolore profondo. E un affetto per quel figlio “faggot”, frocio, che non riesce a nascondere del tutto. Henriksen mostra, sulla sua carne, che odiosità, cattiveria e affetto possono convivere nella stessa persona.
E infine, c’è quel “falling”. L’inevitabilità della caduta, del precipitare fisiologico. In fondo, la frase più vera che il padre dice al figlio è quella che mormora la prima volta che se lo ritrova fra le braccia, neonato: “Mi dispiace averti messo in questo mondo, per poi morire”. Dopo l’affresco di America razzista anni ’60 che era Green Book (guarda la video recensione), trionfatore degli Oscar 2019, è come se Viggo Mortensen – che in Green Book era il protagonista Tony Lip, autista sveglio, rozzo e tosto – riprendesse un discorso sull’America di quegli anni.
I flashback di Falling sono ambientati negli stessi anni: ed è in fondo la stessa America. Un’America di elettrodomestici bombati e di donne umiliate, di padri autoritari e violenti, di figli che non vogliono diventare come loro. È il mondo di cinquant’anni fa, dal quale ci siamo allontanati. E al quale molti sembrano voler tornare.
Visivamente, Mortensen non cerca belle inquadrature fini a se stesse, che si prendano la scena, ma neppure usa la camera solo per filmare teste che parlano. Intesse il suo film di inquadrature profondamente belle, quietamente belle, essenziali. E cura il montaggio, l’alternanza fra gli strati di passato e di presente, legando le scene con particolari, oggetti che rimandano da un tempo all’altro: bicchieri d’acqua, cravatte, persino suoni. Più lirica e rarefatta la parte relativa al passato; più crude, meno estetizzanti le immagini attuali – anche se è un presente che in realtà è fissato attorno al 2008: c’è uno sticker di Obama sul frigorifero.
Racconta con stile, Mortensen, un film sulla forza distruttrice che sembra pervadere il padre, che lo porta a rovinare la sua vita. Un film che è anche una riflessione sul tempo, sul poco tempo che ci è dato. Che ti brucia la pelle come carta vetrata, e altre volte è tenero, quando meno te lo aspetti.
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