Festival della Valle d’Itria, da Haendel a Bellini, l’estate è all’insegna del belcanto

Il vero e proprio trionfo, con bis imprevisto in corso d’opera della sterminata aria Dopo notte atra, e funesta, di cui non vorrebbe mai sentire la modulazione finale. I boati che hanno salutato l’esecuzione degli altri numeri solistici e duetti di Cecilia Molinari, santificando l’autore Haendel e la sfolgorante protagonista di Ariodante, sono l’immagine simbolo del 50esimo Festival dalla Valle d’Itria. E marchio riconoscibile dello stato di capitale – “scopritrice” del belcanto di Martina Franca. Senza esagerazioni né compiacimenti: “La città del festival” ricordano i cartelli stradali all’ingresso della città. Sulla sacra collina del bel cantare e del repertorio inaspettato.

Oggi, fortunatamente, il capolavoro da Ariosto di Haendel non lo è. E qui la natura musicale e teatrale speciale, garantita in esecuzione dal respiro e dalla complicità haendeliana del direttore-concertatore Federico Maria Sardelli, con le sonorità ora cruscanti e battagliere ora filiformi e docili come gli ‘stupori’ evocati dal canto dell’orchestra Modo Antiquo, e la perfetta distribuzione del resto della compagnia, sono da manuale. Da aggiungere alla squisita, documentata e poetica, storia di mezzo secolo di azzardi artistici, di amore visionario, presunzione e culto per la voce della rassegna racchiusi con affetto dal regista martinese Leo Muscato nel film L’utopia della valle scritto con Massimo Bernardini e Laura Perini.

L’edizione solenne dei 50 anni, tre titoli operisti intarsiati in un programma gemmato di decine di concerti e proposte non di guarnizione, s’è inaugurata con Norma. L’evocazione simbolica che ci voleva. L’opera di Bellini, proposta nel 1977 in una chiave critico-esecutiva innovativa per il tempo, spia della futura cupidigia per l’inedito e il belcanto dei programmi, fu il primo grande successo – con risvolto mediatico non solo locale – del neonato festival, creatura prediletta di Paolo Grassi.

Altro martinese di salutari vedute immodeste e inesausti appetiti da seminatore di cultura. Nonostante la presenza colta e altruista sul podio del direttore musicale Fabio Luisi, testimone della storia del Festival della Valle d’Itria – iniziò a collaborarvi agli inizi degli anni Ottanta – e dell’eredità di idee e motivazioni artistiche cui siamo in debito, Norma però non ha funzionato come si auspicava. La “conversione” belcantistica del quartetto di protagonisti (Jacqueline Wagner, Valentia Farkas, Airam Hernàndez, Goram Juric) dalla fisionomia vocale poco compatibile reciprocamente e nei confronti dell’esigente scrittura drammatico-vocale d’autore è rimasta allo stadio della notte prima degli esami: non un’acquisizione tecnica e poetica convincente. E non è approdata al grado di interpretazione valida e continua. Lo spettacolo registicamente generico e rinunciatario di Nicola Raab non li ha aiutati.

Tutto oliato nella “fiaba lirica” di Nino Rota Aladino e la lampada magica. Scelta doverosa nei confronti di una partitura che alla prova reale, grazie per prima cosa alla sofisticata cura e guida direttoriale di Francesco Lanzillotta, s’è mostrata quanto fosse ingiustamente dimenticata (“negletta”, direbbe Alberto Triola che da direttore artistico nel 2010 qui fece rinascere Napoli milionaria), e di un musicista che fu il primo a dissodare i campi e far rinascere la musica nella terra pugliese.

In azione cantanti bendisposti in palcoscenico e incalzati dallo spettacolo sempliciotto ma alla fine appropriato di Rita Cosentino nell’originale ambientazione di Leila Fteita: una biblioteca-gipsoteca candida su sui si aprono “finestre-immagini”, come le pagine decorate che intarsiavano un tempo i libri illustrati di racconti per piccoli lettori. Tra la gustosa quanto aristocratica definizione ‘caratteristica’, recitazione e piccola lezione di stile, di Marco Filippo Romano e l’impegno melodrammatico pieno di Claudia Urru, Eleonora Filipponi e del protagonista Marco Ciaponi.

Aladino e la lampada magica, 1963-67 è la nona opera d’autore. Rimasta nel cassetto, o quasi, dopo la prima nel 1968 al San Carlo. Rota aveva appena conquistato il pubblico non cinematografico e sorpreso quello arcigno dell’avanguardia colta con il racconto irrefrenabile del Cappello di paglia di Firenze. Qui è tutto più colloquiale, proprio come una storia per bambini che vogliono cose semplici ma si accorgono subito se sono trattati “da bambini”. Rota non imbroglia: scrive una partitura ‘grande’ da quello straordinario cesellatore di gioielli orchestrali che era. Ma lavora sul vuoto drammaturgico del libretto.

A Palazzo Ducale, grazie all’azione musicale guidata da Lanzillotta e alla vena dell’orchestra del Petruzzelli e del vivace gruppo di voci bianche di Angela Locarbonara, ritrovare Rota è stata una gioia. Da aggiungere all’albo d’oro delle serate da non dimenticare e dei proponimenti artistici che da cinquant’anni a Martina Franca non rimangono tali, nel cassetto. E di cui le voci di Ariodante – Francesca Lombardi Mazzulli e Teresa Iervolino (contralto: splendida nel canto e nella presenza scenica nella parte di solito ‘a voce maschile’ del perfido Polinesso), Theodora Raftis, Biagio Pizzuti e Manuel Amati – e lo spettacolo minimale, in bianco-e-nero ma allineato bene all’ascolto della musica – regia di Torsten Fischer, scene di Herbert Schäfer, costumi di Vasilis Triantafillopoulos – hanno riassunto il meglio.

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