Gianni Di Gregorio a Venezia 82: “Pensavo fosse finita, invece ho ancora voglia di raccontare”

Venezia – A 76 anni Gianni Di Gregorio torna alla Mostra del Cinema di Venezia, alle Giornate degli Autori, con Come ti muovi, sbagli, film di chiusura il 5 settembre 2025 e nelle sale con Fandango. La commedia racconta la vita di un professore settantenne in pensione che, nel suo appartamento di Trastevere, dopo anni di equilibrio fra una buona pensione, gli amici e forse una nuova possibilità sentimentale (Iaia Forte) vede la quotidianità sconvolta dall’arrivo della figlia dalla Germania, Greta Scarano, in piena crisi coniugale e con due vivaci bambini al seguito. A portare ulteriore scompiglio è Helmut, il di lei marito (Tom Wlaschiha) in viaggio a piedi riparatore.

Prodotto da Bibi Film, Rai Cinema e la francese Les Films du Poisson Come ti muovi, sbagli prosegue il percorso iniziato con Pranzo di Ferragosto (2008), a cui hanno fatto seguito Gianni e le donne (2011), Buoni a nulla (2014), Lontano lontano (2019) e Astolfo (2022).

“Come ti muovi sbagli”, il ritorno lieve e ironico di Gianni Di Gregorio

Aveva detto che non voleva più fare film. Cosa la spingeva a dirlo e che cosa invece l’ha convinta a girarne uno nuovo?

“Guardi, lo confesso: per un fatto anagrafico avevo pensato che il tempo fosse passato, che mi restasse solo il ruolo del nonno coi bambini. Quella prospettiva, se da un lato è un classico, dall’altro mi faceva un po’ paura. Io vivo in famiglia da anni, conosco bene le dinamiche più belle ma anche quelle più faticose, e ho pensato di provare a raccontarle in un film con i nipotini, però senza incentrare tutto su di me, bensì dando spazio e importanza anche agli altri personaggi. In questo modo il racconto poteva diventare più universale. Il personaggio della figlia, ad esempio, è nato da una storia vera: mia figlia l’anno scorso era laureata con ottimi voti, ma non riusciva a trovare lavoro. Tutto quell’anno è venuta a raccontarmi le sue difficoltà, e quelle cose io le ho scritte. Poi ho pensato a una storia d’amore, sempre ispirata a fatti reali, come quella del marito tedesco che per farsi perdonare tornò a piedi da Berlino a Roma. Mi piaceva troppo quella vicenda, l’abbiamo usata così com’era”.

Con che animo è arrivato alla Mostra di Venezia?

“Posso dirle la verità? Sono molto contento, felicissimo, ma faccio finta di niente perché dentro sono agitato ed emozionato. Venezia per me è importantissima, un appuntamento che vivo come una festa che comincia a Ferragosto. Passo giorni a scegliere la giacca”.

Il ricordo più forte, buffo o commovente legato a Venezia?

“Una volta, dopo Pranzo di Ferragosto, Müller mi chiamò a far parte della giuria del premio De Laurentiis. Fu un’esperienza bellissima. Ricordo che però i giurati mangiavano malissimo: si facevano piatti assurdi, mescolando prosciutto, pasta e ogni cosa. Io a un certo punto dissi: basta! E li portai a mangiare in un posto dove prepararono piatti veneti della tradizione. Furono felicissimi e da quel giorno, per tutto il periodo della Mostra, a mezzogiorno mi seguivano per andare a mangiare lì. È un ricordo buffo ma anche molto bello: credo non se ne dimenticheranno facilmente”.

Se dovessimo sfogliare un album di ricordi attraverso i suoi film, partendo da Pranzo di Ferragosto: chi era quel Gianni e chi è il Gianni di oggi?

“Devo ammettere che per molto tempo sono stato scettico anche verso me stesso. Ora invece mi sento pacificato: rivedendo le cose che ho fatto, mi accorgo che una linea c’è, che scavando nella quotidianità ho lasciato qualcosa. Lo capisco anche grazie agli altri: parlando con chi scrive, come lei, ci si accorge di quello che si è realizzato. Per la prima volta sento un calore intorno e questo mi rende contento. In fondo posso dire che ho combinato qualcosa”.

Nei personaggi che ha interpretato o raccontato vede un pezzo di sé che è rimasto e uno che invece è cambiato?

“Direi di no, non credo di essere cambiato molto. L’età non la sento, non ci penso troppo. Molti anni fa ho fatto psicanalisi con un ottimo professionista. Alla fine mi disse: ‘Basta, non venga più, è finita’. Aggiunse anche: ‘Tanto rimane quello che è, non cambierà mai’. E aveva ragione. Quelle parole mi hanno dato la forza di continuare a fare film. Io convivo con le mie capacità e i miei limiti, ma sono rimasto quello che ero. Quello che cambia sono i tempi intorno a noi”.

E infatti volevo chiederle: il microcosmo romano e familiare che lei ha sempre raccontato è cambiato?

“Sì, purtroppo sì. Non è più lo stesso. Gli affetti profondi resistono, ma certe figure – l’amico del bar, le persone che animavano la vita quotidiana – sono rarefatte. Oggi tutto è diverso, anche nel quartiere: va benissimo così, ma non è più come prima. Mi manca quella familiarità. Allo stesso tempo il cambiamento è globale. La tecnologia, ad esempio, mi fa paura. Da ragazzo avevo questa inquietudine e oggi la sento confermata. È come se ci allontanasse un po’ gli uni dagli altri. La usiamo tutti, certo, ma la sensazione di distanza rimane. Forse è un segno dell’età, non lo so, ma è qualcosa che mi spaventa davvero”.

Che momento è per lei e come vede il cinema?

“In questo momento mi sento molto pacificato, positivo. Provo affetto per i colleghi. E sono felice soprattutto di un fenomeno che ho visto negli ultimi anni: il cinema femminile. Dove ci sono le donne, tutto migliora. Le troupe ormai sono composte in gran parte da donne e lavorare con loro è meraviglioso: hanno un altro passo, un’altra vitalità, camminano più veloci e con coraggio. Gli uomini sono più timidi, più lenti. Con loro invece mi sento sollevato: il lavoro funziona meglio”.

Ci sono personaggi ricorrenti nei suoi film.

“Inserisco sempre due o tre personaggi da bar. Non resisto: rappresentano un po’ il senso dell’amicizia, di quelle figure che ti danno sollievo e compagnia. Mi ricordano la mia giovinezza, quando il bar era un punto di riferimento. Ora che quel mondo non c’è più, non è facile sostituirlo. Quelle persone erano i miei ispiratori e in qualche modo continuerò sempre a rimettere nei film quel tipo di presenza, perché per me significa stare meglio, tornare a un calore che sento indispensabile”.

Con Moretti, Garrone e Virzì ha buoni rapporti?

“Li stimo e li sento vicini. Provo per loro simpatia e affetto. Con Nanni Moretti, ad esempio, ho un rapporto antico e profondo: ci conosciamo da tantissimo tempo e gli sono molto grato, perché mi ha chiamato spesso anche solo per piccole parti nei suoi film. Non amo recitare, per me è faticoso fare l’attore, ma con lui l’ho fatto volentieri, come segno di stima. Quando dirigo sto bene ma davanti alla macchina da presa è dura: devi stare diritto, pensare a come muovi i denti, a come cammini… diventa un impegno che mi stanca molto. Però per Moretti l’ho fatto e con lui ho un legame autentico. Ci sentiamo, ci raccontiamo progetti futuri: è un rapporto che continua”.

Questo nuovo film le ha ridato voglia di andare avanti?

“Non era semplice, perché c’era il rischio di cadere nel genere del nonno con i bambini, che un po’ mi spaventava. Ho cercato di fare il meglio possibile, con sincerità. Ora, sentendo anche le sue parole, mi sento incoraggiato: sì, mi viene voglia di continuare. Però questa consapevolezza arriva solo dopo aver finito un film, perché prima restano i dubbi. Quando il lavoro è compiuto, allora parlando se ne capisce il senso e ci si riconosce”.

Tornando alle origini, pensa mai a sua madre, alla sua famiglia, a cosa avrebbero detto di questa carriera così longeva?

“Ci penso molto, sia a mia madre che a mio padre. Mio padre è stato il vero responsabile del mio amore per il cinema: era un appassionato, ci andava due o tre volte al giorno. È lui che mi ha trasmesso questa passione. Mia madre invece aveva ironia, voglia di ridere, e in questo è stata un trionfo. A entrambi penso con gratitudine e con pacificazione. Li porto sempre con me e spesso mi domando che cosa avrebbero detto vedendo questo percorso”.

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