Giovanna d’Arco pazza, santa e strega nell’allestimento di Emma Dante

Vergine guerriera dalla storia ch’è presto diventata leggenda, e soggetto di svariate ricreazioni, Giovanna d’Arco è una figura di donna che pare creata per Emma Dante. Così come era Carmen, divampante nell’omonima partitura di Georges Bizet con cui debuttò nella regia d’opera. «Forse è pazza, forse è una santa ispirata dal cielo, forse è una strega succube degli spiriti maligni» scrive la regista sul programma di sala. Dove della pulzella d’Orléans si limita a osservare ciò che poteva piacere al pubblico melodrammatico del 1845 (ma il palcoscenico le motivazioni sono più intime, moltiplicate e a sorpresa più estetizzanti che laceranti o concettuali). E, infatti, piacque a Giuseppe Verdi che ancora non presentiva la rivoluzione messa in campo due anni più tardi con Macbeth, e si sbilanciò considerandola la sua migliore opera.

Al Regio di Parma la pensano allo stesso modo. E Giovanna d’Arco l’hanno eseguita per la terza volta nel nuovo millennio. E oggi è al posto d’onore: inaugurazione di stagione (e, guarda il caso, in settembre il Festival Verdi ha programmato il Macbeth 1847), al centro di un progetto artistico coerente. Di rilevante qualità poetica e drammatica. Realizzato con una qualità nobile eppure radicata nel realismo espressivo, in cui la direzione di Michele Gamba, priva di orpelli ma sapiente nel dare luce ai minimi dettagli di partitura, e lo spettacolo di Dante si sono perfettamente incontrati.

Pazza, santa e ispirata, la sua Giovanna è prima di tutto una figura forte. Tormentata ma con la dote di “illuminare” con la sola presenza ogni quadro della narrazione. Decisiva nella visione registica la scenografia minimalista – esemplare nel terzo atto, col cavallo-pupo bianco che rende spettrale e toccante il quadro. E chiarisce la tinta emotiva diretta e quella psicologica allusa. Carmine Maringola e Vanessa Sannino meritano un applauso a parte. Indimenticabili nel terzo quadro, quando la ragnatela di tronchi nudi che sperdono i rami oltre l’altezza del boccascena evocano una foresta quasi fossile, dove le “tentazioni” religiose di re Carlo e Giovanna sono rese con incantevole – anche incantata, quasi da sogno di una notte di mezz’estate – coreografia. Nel vagare di spiriti-giocolieri e il serpeggiare di ninfe infernali che infine si rinchiudono come crisalidi in grandi amache-bozzoli bianchi e sospesi.

Il racconto teatrale, che inizia sul cambio di tempo della Sinfonia, cameo del sofisticato e vitale lavoro di Gamba sull’orchestra, si apre con un’evocazione livida, quasi sospesa nei gesti e nei quadri viventi ma spietata, dell’orrore senza colore della guerra. In calibrato contrasto l’opera si chiude con l’immagine di Giovanna, finalmente pacificata, che muore ricoverata, anzi abbracciata maternamente, da un tripudio coloratissimo di fiori. Dando evidenza alla lettura del personaggio fondata sulla solidarietà per la sua fragilità psichica più che facendole indossare una corazza insurrezionale o rivendicativa. La ragazza Giovanna più che la donna. Le trepidazioni e i dubbi adolescenziali, sempre indecisi tra bene e male, più che la vocazione, o dannazione?, della femmina a guidare eserciti maschili alla vittoria.

Bravi i tre cantanti protagonisti (Nino Machaidze, Luciano Ganci e Ariurbaatar Ganbaatar), a farsi carico di una musica che non risparmia asprezze e audacie alla voce, e il coro di Martino Faggiani. Tutti tutelati da una regia musicale come quella di Gamba che non ha sbagliato un accento né un colore. Spigliato e insinuante nei dialoghi voce-strumenti, la sua concertazione ha fatto capire perché Verdi amasse tanto Giovanna d’Arco e ne avesse fatto un laboratorio operistico. Senza curarsi della bellezza, a tratti, ma mirando alla verità teatrale.

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