Gli autori di Anac: “Non serve un ministero digitale, ma un Centro Nazionale autonomo per il cinema”
Gli autori dell’Anac: “Più che a un nuovo ministero, pensiamo al Centro Nazionale del cinema e audiovisivo”.
Registi e sceneggiatori dell’Associazione intervengono con una lettera sulla proposta rilanciata da Pupi Avati di togliere competenze dal ministero della Cultura e creare un ministero ad hoc per “il cinema, gli audiovisivi e la cultura digitale”.
Secondo il regista non basta il MiC, perché “il presente del cinema in tutte le sue forme è già così complesso da richiedere un trattamento specifico”, in sostanza, secondo Avati, non può esistere un ministero che contemporaneamente si occupi di Uffizi e di Netflix perché sono cose troppo diverse. E ha indicato come esempio la Francia, dove il Centre national du cinéma et de l’image animée sostiene l’economia cinematografica, audiovisiva e multimediale, promuove prodotti, tutela il patrimonio.
Ma, sostengono gli autori di Anac, sarebbe preferibile un organismo come un Centro nazionale (frutto della trasformazione dell’attuale Direzione Generale di cinema) sul modello francese, che avrebbe come caratteristica l’essere autonomo e quindi svincolato dalla nomina dei ministri. Questo per garantire continuità, specializzazione e indipendenza. Ecco la proposta e le riflessioni dell’Anac, nella lettera affidata a Repubblica.
“Il dibattito scaturito dalla proposta di Pupi Avati sulla costituzione di un Ministero del Cinema non può che essere di interesse primario per gli autori non foss’altro che per aver avviato uno stimolante confronto pubblico che fino a questo momento è stato assente. Apprezziamo lo spunto per riflettere sul cinema italiano dopo il periodo di “doping” da tax credit vissuto negli ultimi anni. L’ipotesi ventilata è suggestiva come altre, storicamente care all’Anac, sulle quali vale la pena riportare l’attenzione.
Dario Franceschini con la moglie Michela De Biase
La prima riguarda la possibilità di rendere autonoma la Direzione Generale Cinema liberandola dal vincolo della pubblica amministrazione, dotandola di risorse proprie e di un più congruo numero di addetti, con la sua trasformazione nel Centro nazionale del cinema de dell’audiovisivo. In tal senso i presupposti normativi andrebbero ricercati nel disegno di legge N. 1835 del 24 marzo 2015 a firma di Sergio Zavoli e Rosa Maria di Giorgi (https://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/00925769.pdf) che del Centro prevedeva la creazione e la regolamentazione e alla cui formulazione l’Anac partecipò. Quel disegno di legge, accantonato dall’allora ministro della cultura Dario Franceschini e dal suo Presidente del Consiglio Renzi per lasciare campo libero all’attuale legge incentrata sul tax credit, sanciva appunto la costituzione del Centro Nazionale del Cinema e dell’Audiovisivo.
Pupi Avati
Un ente di diritto pubblico, dotato di autonomia regolamentare, amministrativa, organizzativa, patrimoniale, finanziaria, contabile, di riscossione e di bilancio. In quel disegno di legge era contenuta anche una norma per la quale il cinema e l’audiovisivo italiani avrebbe potuto contare su risorse finanziarie proprie che non avrebbero gravato per nulla sulle casse dello Stato, perché introduceva la cosiddetta tassa di scopo sugli utili realizzati da tutte le imprese che traggono profitto dallo sfruttamento delle opere e dei prodotti audiovisivi sul territorio italiano a partire dalle sale, fino ai broadcast e alle piattaforme.
Per quest’ultimo tipo di imprese il prelievo sarebbe avvenuto sulla base del fatturato maturato in Italia. I proventi del prelievo di scopo sarebbero stati riscossi direttamente dal Centro Nazionale del Cinema e dell’Audiovisivo.
Al momento dell’approvazione della vigente legge n. 220 del 2016 fu detto strumentalmente che il meccanismo di finanziamento del Fondo di sostegno si richiama alla tassa di scopo, ma non è così. L’art 13 dell’attuale legge prevede sì un meccanismo di finanziamento del Fondo parametrato annualmente all’11 per cento delle entrate effettivamente incassate dal bilancio dello Stato, derivanti dal versamento delle imposte IRES e IVA, sulle attività di distribuzione cinematografica, di video e di programmi televisivi, proiezione cinematografica, programmazioni e trasmissioni televisive, erogazione di servizi di accesso a internet, telecomunicazioni fisse, telecomunicazioni mobili, ma si tratta non di un prelievo di scopo all’origine, ma di derivazione interna di tasse già esatte. Oltretutto sulle modalità e la quantità di esse non vi è mai stata una comunicazione pubblica e non si è mai fatto nulla per includere nel cespite gli utili delle piattaforme.
Un ulteriore provvedimento utile a rilanciare l’attività e portare risorse al sistema, in particolare a quello delle sale, sarebbe la reintroduzione di consone finestre di sfruttamento dei film, la cosiddetta cronologia dei media, che regoli meglio dell’attuale la distanza temporale che esiste tra le uscite sui diversi canali distributivi. Il mancato recupero dei livelli di frequentazione della sala che avevamo prima della pandemia, dipende in parte anche dalla riduzione della durata delle finestre a 90 giorni. Infatti se uno spettatore è consapevole che potrà vedere Parthenope di Sorrentino su Netflix dopo solo tre mesi dall’uscita nelle sale ad un costo irrisorio perché dovrebbe andare al cinema spendendo 9 euro? Inspiegabilmente, oltretutto, la regola vale solo per i film italiani, perché un blockbuster made in Usa può essere diffuso in contemporanea in sala e su una piattaforma, eliminando ogni beneficio per l’esercizio nazionale.In Francia dove la frequentazione della sala nel 2024 è stata di 180 milioni di spettatori (poco sotto i livelli del pre-pandemia), Netflix non può diffondere un film prima di 15 mesi dalla sua uscita in sala. Infine, andrebbero rilanciate le norme, correggendo le distorsioni verificatesi in passato, per riattivare il tax credit esterno.
Tale dispositivo di finanziamento a differenza del tax credit di cui si è parlato negli ultimi tempi, come è noto, porta al sistema risorse direttamente dalle imprese che optano per indirizzare nella produzione cinematografica parte delle loro imposte. Anche questa sarebbe una boccata di ossigeno per la ripartenza della produzione senza costi diretti per le casse dello Stato”.
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