“Grand Tour”, un insolito romanzo coloniale. La recensione di Alberto Crespi
Miguel Gomes, portoghese, classe 1972, ex critico rivelatosi regista con Tabu (2012) e una fluviale riscrittura di Le mille e una notte (2015), il “grand tour” l’ha fatto davvero. Ma non in Italia, come gli artisti e gli scrittori nel ‘700 e nell’800. È andato in Asia Orientale, ha viaggiato in condizioni anche perigliose ed è tornato con riprese eterogenee che ha poi montato all’interno di un film realizzato, per il resto, negli studi di Cinecittà: l’Italia è quindi entrata nel film, ma in modo quasi subliminale.
Il risultato, Grand Tour appunto, è stato premiato a Cannes per la miglior regia ed è un film che non assomiglia quasi a nulla di ciò che normalmente si vede al cinema. Si svolge – ci informa la voce fuori campo – nel 1917 ma si vedono telefoni cellulari e automobili moderne; immagini in uno smagliante bianco e nero si alternano a inserti a colori (spettacoli di marionette, ombre cinesi, intermezzi musicali). Racconta un lungo viaggio da Mandalay (Birmania) alle foreste della Cina, un percorso mentale che è anche un inseguimento amoroso: seguiamo le peripezie di Edward, un inglese che va verso Est per sfuggire a una fidanzata che sta cercando di raggiungerlo per sposarlo, e di Molly, la donna che lo insegue vanamente.
Ascoltando la voce off sembra di leggere un romanzo “coloniale” alla Kipling, ma la narrazione è astratta, senza tempo, “epica” nel senso brechtiano del termine. Grand Tour è una parabola sul colonialismo e una riflessione sulle varie forme di racconto che il cinema può utilizzare (parole, immagini, musica, montaggio).
È un film impervio ma affascinante, di un fascino quasi morboso, che può stregare. Un’esperienza che ci sentiamo di consigliarvi.
Grand Tour
Regia di Miguel Gomes
Voto: quattro stelle su cinque
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