Il giudice: “Avetrana non è stata diffamata, restituite alla serie il suo titolo”

Dopo mesi di polemiche, slittamenti e un provvedimento d’urgenza che ne aveva mozzato il titolo, la serie sull’omicidio di Sarah Scazzi tornerà a chiamarsi in Italia Avetrana. Qui non è Hollywood.

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Presentata alla scorsa Festa di Roma, ottobre 2024, la serie – prodotta da Groenlandia e diretta da Pippo Mezzapesa, si era vista sospendere la messa in onda su Disney+ sulla base del provvedimento d’urgenza stabilito dal Tribunale di Taranto, su richiesta del Comune di Avetrana. La parola Avetrana doveva essere rimossa per poter approdare sulla piattaforma perché, sosteneva il sindaco Antonio Iazzi, “associava Avetrana a una comunità potenzialmente criminogena, retrograda e omertosa”. La sentenza del giudice del Tribunale, a cui il Comune non ha fatto ricorso e che quindi è definitiva, stabilisce che quel nome va rimesso nel titolo perché “non aveva intento denigratorio verso Avetrana e le sue istituzioni. Al contrario, simboleggiava uno spunto di riflessione che l’autore ha sviluppato all’interno dell’opera, mettendo in luce non solo i fatti di cronaca, ma anche l’impatto mediatico che ha coinvolto l’intero paese”.

La serie aveva poi debuttato il 20 novembre su Disney+ in EMEA e l’11 dicembre su Hulu negli Stati Uniti, diventando, al debutto, la serie di general entertainment più vista su Disney+ in Italia dal lancio della piattaforma nel 2020.

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La Disney ripristinerà il titolo. “Il titolo non è solo un nome: è parte integrante della narrazione e del messaggio dell’opera. Censurarlo equivale ad amputare un’opera d’arte, a limitarne la portata espressiva” spiega il regista Pippo Mezzapesa. “ll Tribunale ha rigettato la richiesta del Comune, dichiarando che il titolo era legittimo e che non vi erano i presupposti per un provvedimento d’urgenza. Nella sentenza viene affermato che la titolazione Avetrana – Qui non è Hollywood non era scollegata dalla serie, ma anzi risultava coerente con il tessuto narrativo e con i temi trattati. Il Tribunale ha sottolineato come il titolo esprimesse una riflessione critica sull’invasione mediatica che ha travolto il territorio e sulla spettacolarizzazione del caso di cronaca, trasformando la realtà in una sorta di set cinematografico. Inoltre, la sentenza ha chiarito che il titolo non aveva intento denigratorio nei confronti della comunità di Avetrana o delle sue istituzioni”.

Quando è stata emessa questa decisione?

“La sentenza è stata pronunciata qualche settimana fa. Abbiamo atteso la scadenza dei termini per un eventuale ricorso in appello da parte del Comune di Avetrana, ma non è stato presentato alcun ricorso. Questo significa che il procedimento si è definitivamente concluso e che non ci saranno ulteriori azioni legali contro il titolo della serie”.

Perché inizialmente avete scelto di rimuovere il titolo?

“Per evitare il blocco della serie. Altrimenti la serie sarebbe rimasta sospesa fino alla fine del procedimento legale, con conseguenze molto pesanti sulla distribuzione. È stata una scelta dettata dalla necessità di garantire la fruizione dell’opera, ma l’abbiamo vissuta come una vera e propria censura preventiva. Il fatto che sia stato richiesto un cambiamento del titolo ancor prima di visionare la serie e comprenderne il contenuto ci ha turbati, perché il titolo è parte integrante di un’opera creativa e non può essere considerato un elemento accessorio”.

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Ora che il procedimento è chiuso, il titolo originale verrà ripristinato.

“Ora la serie potrà riappropriarsi di un elemento che è fondamentale per la sua identità. Il titolo non è solo un nome: è parte integrante della narrazione e del messaggio dell’opera. Censurarlo equivale ad amputare un’opera d’arte, a limitarne la portata espressiva”.

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Questa vicenda rappresenta una battaglia di principio?

“Sì. Questa non è solo una questione legata a questa serie: si tratta di una battaglia per la libertà artistica e per il diritto di raccontare la realtà senza censure. La sentenza ha ribadito che il titolo non denigra Avetrana, ma anzi stimola una riflessione. Il caso di cronaca ha avuto un impatto mediatico enorme, e questa serie non si limita a raccontare un delitto, ma analizza anche le conseguenze che ha avuto sulla comunità. Se si inizia a limitare il diritto degli autori di raccontare la realtà, si apre una strada pericolosa che può portare a un meccanismo di autocensura e alla restrizione della libertà espressiva”.

Durante la produzione, quali erano stati i rapporti con Avetrana e i suoi abitanti?

“Abbiamo scelto di non girare ad Avetrana per rispetto nei confronti della comunità e della famiglia della vittima. Abbiamo ricostruito l’ambientazione in altri paesi limitrofi perché ci sembrava più delicato evitare di riportare le riprese nei luoghi reali della vicenda. Non è questione di aspettarsi o meno una reazione del genere. Il punto è che le storie vanno raccontate. Questa serie non parla solo di un caso di cronaca nera, ma racconta anche l’impatto che ha avuto su un’intera comunità. L’arte, il cinema e la letteratura servono anche a questo: a farci confrontare con la nostra storia e con le dinamiche sociali che la attraversano”.

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Le polemiche hanno danneggiato la serie?

“Sì, all’inizio c’è stato un forte clamore, nato ancora prima che la serie fosse trasmessa. Molti si sono schierati senza neanche aver visto il prodotto, basandosi solo sul titolo o sul poster. È stato un caso di giudizio preventivo che ha creato una certa diffidenza. E poi abbiamo dovuto slittare l’uscita”.

Dopo l’arrivo su piattaforma, avete notato un cambiamento nell’atteggiamento del pubblico?

“Assolutamente sì. Prima dell’uscita, il clima era molto teso. I commenti erano spesso negativi, talvolta aggressivi o sarcastici. Dopo la visione della serie, però, tutto è cambiato. Ha raggiunto un vasto pubblico e le persone hanno potuto constatare che il racconto era rispettoso e ben costruito. La serie è stata compresa, è stata accolta con entusiasmo dalla critica ed è stata riconosciuta come una delle migliori produzioni dell’anno. Questo dimostra quanto sia importante non giudicare un’opera prima di conoscerla”.

Questa vicenda riguarda anche il tema dello sguardo autoriale sui fatti di cronaca. In Italia c’è ancora resistenza a un approccio più personale e cinematografico a questi temi?

“Sì, esiste ancora la convinzione che un fatto di cronaca possa essere raccontato solo in due modi: o con una fiction tradizionale o con un documentario. In realtà, esiste anche una terza via, che è quella dello sguardo autoriale. Noi abbiamo scelto di non limitarci alla cronaca dei fatti, ma di esplorare anche le emozioni, il dolore, le dinamiche umane. La serie non è un semplice resoconto, ma un tentativo di entrare nel vissuto delle persone coinvolte e di raccontare il caso da diverse prospettive. Solo attraverso la finzione si può tentare di restituire questa complessità”.

C’è stata una reazione che l’ha colpita in modo particolare, nel bene o nel male?

“Ho vissuto questa fase con molta attenzione, cercando di concentrarmi sul valore del nostro lavoro. Per noi autori, ogni progetto è il frutto di anni di impegno, di scrittura, di preparazione e di realizzazione. È inevitabile che diventi qualcosa di molto personale”.

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