Il lunedì del cinema: online il 2 dicembre La canzone della terra: una meravigliosa sinfonia visivo-sonora. Candidato all’Oscar per la Norvegia
Un prologo, quattro stagioni, un epilogo. La canzone della terra è il ritorno a casa di Margreth Olin, affermata documentarista norvegese che ha avuto un grande successo di pubblico con Doing Good del 2016. Dopo essere stata lontana per circa trent’anni, ritrova l’intimità con i luoghi dove è cresciuta e soprattutto con i suoi genitori, a cui il film è dedicato.
Il padre Jørgen Mykløen, 84 anni, fa da guida lungo la valle di Oldedalen, nel Nordfjord. L’uomo le ha insegnato fin da piccola a vivere a contatto con la natura. “Non camminare così veloce da dimenticarti di guardare” è stato uno dei suoi insegnamenti. Ed è proprio lo sguardo silenzioso della cineasta che s’incanta davanti a spazi immensi che conosce benissimo ma è come se li guardasse per la prima volta.
Le nuvole, i ghiacciai, le cascate, il cambio delle stagioni disegnano la geografia di una sinfonia visivo-sonora dove si potrebbero rintracciare echi del cinema muto nordico, Sjöstrom soprattutto, nel filmare l’imponenza della natura.
C’è un campo-lungo con Jørgen che sembra diventato piccolissimo davanti alla cascata. Proprio questa inquadratura mette già in evidenza come la regista si trova davanti uno spazio così grande che diventa impossibile da filmare nella sua vastità. Però questa stessa immagine mostra come il padre della cineasta, nella sua immobilità, stia assistendo a un grandissimo spettacolo che lo cattura, lo avvolge, quasi lo inghiotte.
La scelta di Margreth Olin è precisa. Non è l’uomo che è al centro del mondo ma ne è soltanto una sua parte. Per questo i luoghi sono i veri protagonisti di La canzone della terra. Lo sguardo in macchina di Jørgen, il dettaglio del suo occhio, mostra l’intenzione di raccontare parte della sua storia privata partendo proprio da qui.
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Ci sono frequenti riferimenti alla sua famiglia, alla sua infanzia quando è stato portato con urgenza in ospedale per un’appendicite. Ma vengono raccontate, attraverso i suoi ricordi, anche parte della storia della vallata e alcune tragedie.
Tra queste (con foto e filmati in bianco e nero) c’è quella che è considerata la più grande catastrofe naturale della Norvegia: il 13 settembre 1936 è crollato un pezzo di roccia dal monte Ramnefjell ed è finito nel sottostante lago Lovatnet, provocando uno tsunami che ha distrutto terreni e fattorie e causato la morte di 74 persone. Da qui parte poi l’omaggio alle persone che hanno perso la vita in quella tragedia con la voce-off di Jørgen che ricorda i loro nomi sulle immagini di riprese subacquee.
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In La canzone della terra, candidato dalla Norvegia come miglior film agli Oscar 2024 e che vede la presenza di Liv Ullmann e Wim Wenders come produttori esecutivi, sono determinanti anche i dettagli sonori: il rumore dell’acqua della cascata, quello dei ghiacci che sono sul punto di sciogliersi, la migrazione degli uccelli. E soprattutto c’è il canto della madre di Margreth che rende un inno alla loro terra che diventa anche l’ideale controcampo del modo con cui viene mostrato il legame col marito, con frammenti emotivamente intensi come il loro ballo davanti a un falò in estate.
Ma sono presenti ancora le ombre della morte. Ne parlano direttamente i genitori della regista. Da qui si intravede una malinconia del tempo passato ma anche una certa serenità. Nello scorrere delle stagioni c’è il tempo che passa, immutabile. Ma poi c’è anche quello che resta, quello che lasciano le persone nei luoghi nel loro passaggio su questa terra. L’abete del pascolo è tra i più simbolici della vallata. Anzi, è ancora una storia di famiglia.
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