“Il profeta”, il film diventa una serie tv in anteprima a Venezia 82. E il regista è italiano
VENEZIA – Il profeta è un film potente di Jacques Audiard. Ha vinto nel 2009 il Grand Prix a Cannes, nove César, è stato candidato agli Oscar, ha traghettato alla fama il giovane attore algerino Tahar Rahim. Non c’è da stupirsi che quando è nata l’idea di farne una versione seriale nessun regista francese se l’è sentita. E così è entrato in campo lui, Enrico Maria Artale, classe 1984, due film all’attivo (l’ultimo era El Paraiso, due premi a Venezia 2023) ma anche un’importante esperienza nella serialità da Django a Romulus.
Alla Mostra del cinema di Venezia sono presentati gli otto episodi che raccontano il percorso di Malik (l’esordiente Mamadou Sidibé), giovane immigrato dalle Isole Comore, che cerca di sopravvivere nella brutale prigione alla periferia di Marsiglia, dopo essere stato incarcerato per traffico di droga. Solo e vulnerabile, incontra Massoud (Sami Bouajila), un potente e ambiguo uomo d’affari che gli offre protezione in cambio della sua obbedienza. La serie, nel 2026 su Canal+, Indigo Film vende la serie in Italia.
Come è finito un regista italiano a girare una grande serie francese da quel film così importante?
“Mi hanno detto che tutti i registi francesi che sono stati interpellati hanno tutti gentilmente rifiutato. Perché in Francia Audiard è un’istituzione forse il regista francese più riconosciuto a livello mondiale ma in particolare quel film è un cult che nessuno si azzardava a toccare, probabilmente anche a toccare con delle risorse che erano comunque limitate su questo progetto. E poi deve aver agito nella testa del produttore Marco Cherqui anche, la sua ammirazione per il cinema italiano, per come Gomorra, il film era stato tradotto in una serie. Questo esempio particolarmente riuscito di traduzione dal film alla serie lo ha convinto. Ciò che è stato determinante poi è stato quando gli ho detto subito che non avrei voluto fare la Gomorra francese perché mi sembrava che nel film di Audiard, e anche nel primo copione che avevo letto, fossero messe in gioco delle istanze etiche di un altro tipo e che il dilemma morale agisse nei personaggi in un altro modo che mi interessa molto di più”.
Quindi non era intimidito dal confronto?
“Io non volevo imitare il film di Audiard, che ho amato profondamente. È uscito al mio primo anno al Centro sperimentale, mi folgorò. È stato uno dei film che ha avuto un impatto più forte credo in quegli anni. Proprio perché il mio stile è stato molto influenzato da Audiard e da quel film negli anni in questa serie ho voluto cambiare. Quindi gli parlai di Bressan, gli parlai di Kaurismaki, gli parlai di tanto cinema molto più classico e rigoroso. E secondo me l’originalità di questa proposta è il fatto che gli dicevo bisogna spingere sul tratto mistico, esistenzialista”.
Che rapporto c’era con la Francia, parlava francese?
“Assolutamente no, non una parola. Ho promesso ai produttori che in sei mesi avrei parlato francese, ho chiesto che nessuno durante il periodo del casting mi parlasse in inglese. Ho sofferto soprattutto con quei ragazzi che venivano dalle banlieue con un forte accento. La sera prima di andare a dormire leggevo almeno 20 pagine in una grammatica. Però dopo alcuni mesi di grande difficoltà ho iniziato a capire praticamente tutto e poi mi sono sbloccato e ho iniziato a parlare francese”
Come avete trovato questo giovane protagonista?
“È stato un processo abbastanza lungo, già iniziato già prima del mio arrivo e io poi ho incontrato pochi ragazzi, una decina, perché io voglio sempre incontrare pochissimi attori perché ho bisogno di passarci tanto tempo insieme. Era stata fatta una bella scrematura da un reparto casting strabiliante. Ho incontrato questi 10 ragazzi, rimango colpito veramente dopo averci lavorato da tre con questi tre lavoriamo come delle settimane. Perché io quello che voglio sempre fare è adattare il personaggio all’attore, cerco una persona e su quella costruisco un incontro tra personaggio e attore. Quindi al termine di questo periodo di training intensivo a tre ho scelto Mamadou, un ragazzo che non aveva mai fatto niente, non era minimamente formato da attore, un ex calciatore. Mi ha colpito con la sua aura ma dovevo essere sicuro che fosse in grado di gestire l’evoluzione così complessa e sottile di questo personaggio”.
Qual è l’aspetto che è più diverso tra la serie e il film e cosa rimane in comune?
” Ho cercato di portare dei metodi del cinema indipendente che avevo un po’ sperimentato su El paradiso su una serie. Tra questi il fatto di essere io stesso operatore che per me è sempre stato un po’ sinonimo di macchina a spalla. Però qui mi serviva qualcosa di più ieratico, di più simbolico che questi attori emergano come delle figure, quasi delle icone in un certo senso. E questo è molto lontano dal cinema di Audiard soprattutto da Il profeta. Perché poi la grande forza del suo cinema è che c’è una costante evoluzione dell’umano. Quindi in questo cercato veramente di allontanarmi in modo deciso. Il resto più che un allontanamento è stato uno sviluppo. Cioè l’elemento mistico-religioso c’è nel film ma è in nuce. Qui diventa tematizzato, diventa fondamentale, diventa declinato su diversi personaggi Ci sono personaggi musulmani, cristiani, convertiti, che vivono la religione in un modo ipocrita, in un modo molto profondo e vale lo stesso per quelli che sono i conflitti razziali, che non si riducono a quello che era il conflitto tra i corsi e gli arabi. La discriminazione non è più una questione di potere unicamente, ma una questione che lavora su vari fronti in contemporanea: il fronte razziale, sociale, sessuale, di genere, di orientamento sessuale e religioso. Quelle che erano in qualche modo le istanze presenti nel film qui si diramano e si moltiplicano articolandosi in un discorso che secondo me politicamente diventa più complesso, più stringente rispetto alla contemporaneità”.
La serie è ambientata in gran parte in carcere. Come avete lavorato sul luogo?
“Allora siamo partiti da un lavoro di ricerca, perché io mi sono detto visto che parliamo dell’oggi andiamo a vedere le carceri di oggi, forse non sono le stesse carceri che ispirarono il film. E effettivamente pochi anni fa le carceri francesi sono state quasi tutte rivoluzionarie. Quella di Marsiglia è enorme, quattro-cinque anni fa ne è stata aperta una nuova, rivoluzionaria nell’aspetto visivo. Quindi per un regista questo è estremamente interessante. Sono molto colorate, sono molto silenziose, gli spazi non sono particolarmente grandi. Tutto è stato fatto con l’intenzione di creare un ambiente probabilmente meno minaccioso per i detenuti, ma in realtà crea un altro tipo di paura. Soprattutto per me crea delle possibilità di lavorare su elementi simbolici molto forti come il colore, ad esempio, che nella rappresentazione classica delle carceri è inesistente. Invece noi abbiamo stanze rosse, gialle, blu e questo corrisponde ai grandi di potere o agli umori dei personaggi. Quindi il carcere è diventato un luogo per me metafisico. Per farlo era necessario costruire un nostro carcere. Anche perché io volevo girare in modo quasi cronologico, volevo poter rispondere di questa location tutto il tempo. Potevo avere una libertà di movimento anche di cambiare all’ultimo che sarebbe stato impossibile in un carcere reale ammesso che ci avessero concesso di girarci. E questo carcere è stato costruito in Italia, in Puglia perché per ragioni produttive c’era una convenienza. Mi chiedevo come faremo con I detenuti. Viaggiavano non solo gli attori dalla Francia, ma persino le comparse in aereo, diversi ex detenuti, da Marsiglia ala Puglia”.
Qual è stata la sfida più grande di questo progetto per lei e la cosa che alla fine le ha dato più soddisfazione?
“Credo che la sfida più grande era tenere insieme un cinema, io dico cinema anche se è una serie, molto alto, nel senso con un’ambizione di complessità, di educazione allo sguardo, di cultura cinematografica con un pubblico di film anche più commerciali, di pubblico della serialità. Senza cercare un compromesso, cercando una sintesi piuttosto. Questo mi sembrava fin da subito, non tanto e non solo per il confronto con il film, ma proprio dall’idea che il film fosse tradotto in serie l’obiettivo da raggiungere. E spero che in parte ci siamo riusciti. La soddisfazione più grande sta proprio nel vedere il ritrovare l’emozione in questo gruppo fantastico di ragazzi, di attori non professionisti che hanno fatto la serie con me e che vedendo I primi episodi mi dicono ‘nessuno ci mai argomentato così’. Perché loro non sopportano più un certo tipo di racconto anche di film che magari sono anche molto potenti, molto belli che però insistono quasi unicamente sui loro tratti violenti, di durezza, di brutalità. E la serie invece cerca una dolcezza, una poesia nel loro sguardo che li toccati ma che non li ha traditi. Quindi sentirmi dire che loro si sono riconosciuti, ma si sono riconosciuti per le cose migliori che sanno di avere, per me da non marsigliese è stato particolarmente emozionante”.
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