Paolo Ruffini: “Senza una riflessione dietro la comicità perde significato”

Attore, conduttore, regista, sceneggiatore, produttore teatrale, scrittore: ha pubblicato Benito, presente!, la storia di un insegnante dei giorni nostri che si risveglia nel passato e si ritrova in classe il piccolo Benito Mussolini. Paolo Ruffini, livornese, 47 anni il 26 novembre, l’ironia come arma per affrontare la vita, in tour nei teatri con Din don Down – Alla ricerca di (D)io” (all’Arcimboldi di Milano dieci minuti di applausi), sequel del progetto “Up&Down” sempre con la Compagnia di attori con disabilità Mayor von Frinzius, continua a indagare su cosa significhi essere “normali”. Tra Instagram, Facebook e Tiktok 6 milioni di follower, numeri da record con il videopodcast Il Babysitter – oltre 200 milioni di visualizzazioni complessive, un nuovo progetto, Mamme, torna in tv dal 23 novembre su Italia 1 con Zelig on. Insieme a lui Lodovica Comello e la partecipazione di Ale e Franz. Si alterneranno 50 comici, tra nuove proposte e artisti noti. Un laboratorio della risata nato con Giancarlo Bozzo.

Ruffini, che pensa della stagione televisiva?

«Che è ricca. La tv è un mezzo diventato complesso da analizzare, va oltre lo schermo, la trovi sui social, per esempio Belve lo guardo su Tik Tok. Sono felice di tornare su Italia 1, con una trasmissione che nasce da un progetto importante. Ho fatto per dieci anni Colorado, Zelig era il fratellone. Tornare a casa con uno spin off, insieme alla grande compagine autoriale che mi ha accolto, mi rende felice».

Com’è cambiata la comicità?

«E’ sempre figlia dei tempi, abbiamo passato un tempo buio durante il covid, e l’opacità è rimasta. Il politicamente corretto mi fa senso. Oggi è rimasta la voglia di farsi una sana risata, “Ridere è una cosa seria” è il motto di Zelig. Io intervisto i bambini e questo è un mondo in cui i piccoli chiedono all’Intelligenza artificiale se esiste Babbo Natale. Si è perso il sogno. “Fa più rumore un albero che cade che una foresta che cresce”, io continuo a preoccuparmi della foresta. La comicità funziona fino a quando c’è una torta in faccia e non c’è dietro qualcuno che dice la sua. In questo senso, i social hanno dato la zampata a tutto».

Cosa la fa ridere?

«Il nonsense, l’assurdo, i cartoni animati di Willy il coyote, mi fa ridere Fantozzi senza sentirmi in colpa delle disgrazie altrui. Anche alcuni tipi di trivialità. E le battute. Una delle scene che mi fa più ridere è nel film Paparazzi, è quella in cui Diego Abatantuono chiede al sosia di Michael Jackson: “Ma di dove sei?”, e lui risponde: “So’ de Latina”. O la scena di Amici miei in cui Gastone Moschin dice: “Come si sta bene tra noi, tra uomini: ma non era meglio nascere tutti finocchi?”. Pensare di ridere con il politicamente corretto diventa solo propaganda politica».

Nel 1997 fu scelto per Ovosodo da Paolo Virzì, siete rimasti in contatto?

«Siamo rimasti amici. Con lui, dopo Ovosodo, ho interpretato uno dei film più importanti, La prima cosa bella. Lo avrebbe potuto fare Ettore Scola».

Il regista o l’attore che hanno lasciato un segno nella sua vita?

«Tanti. Virzì lo abbiamo citato, uno dei miei miti è Abatantuono: da comico, decide lui quando devi respirare. Ridi e basta. Mai conosciuta una persona che che dà più valore all’amicizia».

Quando è entrata la scrittura nella sua vita?

«Il primo romanzo, Tutto bene, è del 2013. Chi fa il mio mestiere ha un’urgenza di comunicare; mi sempre piaciuto scrivere e leggere, dai tempi del liceo».

Com’era a scuola?

«Come tutti i ragazzi. Cinquanta anni fa mi avrebbero messo in un manicomio pediatrico, ai miei tempi ti mandavano dalle suore. Un classico: è intelligente ma non si applica. Vivevo il sogno di un mondo più bello, di migliorare la qualità della vita con il sorriso. Oggi quella classe è diventato un pubblico».

Al liceo che combinava?

«Il liceo classico ha rappresentato l’esplosione della creatività. Anche lì, impari tardi che la cultura è sinonimo di libertà. Se mi avessero detto: “Con la cultura vivi meglio, voti meglio, fai meglio l’amore…”. Ma benedico il mio liceo e tutte le volte che la professoressa mi dava 3. Si parla tanto di inclusione, io ho vissuto nell’esclusione: “Ruffini, fuori”. Le più grandi sciocchezze della tua vita le fai quando sei fuori, non quando sei dentro. La verità è che da adolescente fai le cose perché vuoi attenzione. Tiravi un rigore: ‘Mamma, guardami’. Gli sguardi che non ti hanno dato da piccolo, da grande diventano voragini».

Sua madre le dedicava poca attenzione?

«Io gliene dedico tanto: la chiamo tutte le sere, è un dovere morale. E non le dico più “ti voglio bene” ma ti amo’».

Osserva la società, come pensa che potrebbe migliorare?

«Io farei una campagna per gli uomini: vorrei che non fossero più considerati mammolette se piangono o dei pochi di buono perché si muovono a compassione. Viviamo in un mondo in cui se c’è un’auto in fiamme e qualcuno cerca di aiutare, altri esseri umani, invece di intervenire, stanno lì a filmare con i cellulari. Ci vorrebbe un po’ di educazione emotiva, abbiamo una refrattarietà rispetto alla carezza e all’amore».

Perché ha scritto un libro su Mussolini bambino?

«Non ho figli ma intervisto quelli degli altri. Mi sono interrogato sul fatto che i bambini chiedono amore incondizionato. Si può nascere cattivi? Perché non costruire una storia, un doppio romanzo di formazione, su un criminale? A 7 anni, un bambino lo educo, educazione non vuole inculcare. Viene da ex ducere, “tirare fuori da”. Lo psichiatra René Spitz diceva che se nei primi anni di vita non riceve carezze, un bambino si ammazza o si impazzisce. Ma la mia non è la rivisitazione retroattiva di un criminale».

Che rapporto ha con la politica?

«Quando incontro il pubblico mi chiedono: “Come ti dichiari tu, che hai scritto un libro su Mussolini?”. Non è che sono antifascista, sono livornese, è un upgrade, ce l’ho nel sangue la politica. Poi è sempre un’applicazione ideologica. Mi sono trovato d’accordo con persone che erano di un partito opposto rispetto a quello che immaginavo… Chi si vota oggi? La persona o il partito? Mi identifico nella libertà, che è complessa. Faccio politica con le cose che faccio. Non so se sono clericale, ma il vescovo di Milano ha visto il mio spettacolo, che è dissacrante, c’è una scena in cui Gesù Cristo recita: “Vorrei un Dio che fosse Down come me”. Dio è molto al di là della perfezione a cui facciamo riferimento. La politica di papa Francesco mi piaceva molto, l’anno prima di andarsene, incontrando noi attori, ha fatto un elogio alla comicità. Tommaso d’Aquino scrive: “Concedimi la grazia di comprendere gli scherzi”. Si può scherzare anche su Dio».

Cosa le fa paura?

«L’ignoranza, l’incultura. Il contrario di guerra non è pace, ma cultura. Non vuole dire che debbano essere tutti laureati. I contadini con la quinta elementare hanno grande cultura, una tradizione popolare bellissima. Oggi si soffre per la mancanza di sogni, se levi alla gente i sogni, riesci a governare molto meglio. Se un popolo campa con la paura di vivere, allora può essere assoggettato».

Di natura è ottimista o pessimista?

«Molto ottimista».

Fa tante cose, la vita privata come va?

«E’ molto legata a quella pubblica, continuo a pensare che sia meglio chiedere scusa che permesso. Io ho una fidanzata e degli amici. Il lavoro diventa collante. Lavoro con la mia ex moglie, musicista, Claudia Campolongo, ci siamo lasciati nel 2013. I rapporti finiscono, ma sono convinto che l’amore rimanga. Andrò a vedere Moulin rouge con Diana (Del Bufalo), a cui sono stato legato».

Su TikTok (oltre 80 milioni di visualizzazioni complessive) si è inventato i format “Il Babysitter – Quando diventerai piccolo capirai” e “Il Badante – Il presente è già il futuro” in cui intervista bambini e anziani su temi filosofici: perché le età estreme?

«Cosa potrebbero dire dei quarantaduenni o dei cinquantenni? I bambini e i vecchi hanno in comune la memoria: entrambi hanno qualche difficoltà a ricordare. E poi non inizierebbero mai una guerra, hanno più coscienza. Hanno il coraggio di essere loro stessi, non si vergognano delle proprie emozioni. Una bambina mi ha chiesto: “Scusa, ma perché i vecchi si chiamano vecchi e i bambini non si chiamano nuovi?”».

Come si immagina da vecchio?

«Bambino. Spero di vedermi giocare. Quando regalo una bambola a una signora anziana, le si illumina il viso. Io vorrei una macchinina, però la lancio».

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