Paolo Sorrentino e l’amore e la politica che illuminano le passioni della vita
VENEZIA – Di chi sono i nostri giorni? È questa la domanda che dobbiamo porci, quando parliamo di fine vita. A chi appartengono, a chi apparteniamo? È sano amare qualcuno più di se stessi? Ha senso interrogarsi su un tradimento di quarant’anni fa? Ci sono omicidi che si possono capire, perdonare perfino, e quando? Qual è l’appiglio legale? Come si arriva a una verità che non sia inganno?
La grazia è un film sulle domande che ogni giorno siamo costretti a farci. In tempi di guerre e politici situazionisti; in tempi di battaglie etiche fatte di prese di posizione acritiche e non di aderenza alla realtà; in tempi che guardano al passato e sono incapaci di immaginare quel che sarà, Paolo Sorrentino sembra chiedersi — e chiederci — di chi è il futuro? Quand’è che capiranno, i padri, che a un certo punto sono i figli a dover guidare?
Il regista premio Oscar travolge la Mostra con un film inaspettato per i temi profondamente politici che tocca, per l’unità di luogo e di tempo in cui si svolge, per lo sguardo che getta su un presidente della Repubblica che a tratti — nella prudenza, nella cautela, nella saggezza e soprattutto nella responsabilità — assomiglia moltissimo a Sergio Mattarella. C’è anche un applauso scrosciante alla Scala, in caso Toni Servillo non avesse reso abbastanza l’idea. Un presidente democristiano, cattolico, con un senso profondo dell’etica e della giustizia. Un giurista che dice, del suo manuale ribattezzato dagli studenti “Everest, K3”: “Giusto così, perché il diritto penale è la scalata dell’impossibile”. E cos’è, l’impossibile? “Stabilire la verità”.
E infatti non è la verità a ogni costo che bisogna cercare, ma il coraggio di compiere le scelte accettando l’esistenza del dubbio. È questa, la grazia finale. È questa, l’etica che scioglie nodi e non li lascia lì — fermi — a sopravvivere al dolore delle persone, come una legge che serve e non arriva; una grazia chiesta e non concessa per indifferenza, o ignavia. “Di chi sono i nostri giorni?”, chiede la figlia Dorotea, un’Anna Ferzetti convincente e magnetica: giurista anche lei ma con in più la passione di chi non guarda la vita come chi ha ormai “un passato pesante e un futuro vuoto”. Resiste, il presidente De Santis, alla richiesta di coraggio della figlia. Resiste davanti a un dilemma che non è banale. Perché prima di qualsiasi cosa — con una legge sull’eutanasia da promulgare — bisogna avere il coraggio di dirsi: “Se non firmo, mi chiameranno torturatore. Se firmo, assassino”.
È una politica d’altri tempi quella cui dà corpo Toni Servillo. Una politica che benedice la burocrazia perché evita di essere frettolosi, incauti, quando serve tempo. Mariano De Santis è un personaggio che resterà come sono rimasti Jep Gambardella, l’Andreotti de Il divo, il Berlusconi di Loro e forse di più. Un presidente cattolico che ama il rap di Gué, fino all’onorificenza finale. Che decide di violare le ritualità quando il suo tempo al Quirinale è quasi scaduto. Che fuma nonostante gli sia rimasto un polmone solo e ha un corazziere che sa far tutto, anche capire qual è la canzone hip hop che tanto gli piace.
Insieme a Servillo, oltre ad Anna Ferzetti, c’è una divertente Milvia Marigliano nel ruolo di Coco Valori, amica del cuore e custode di segreti. Battutista eccezionale: “Questa non è una cena, è un’ipotesi”, o anche: “Voi politici intrattenete con la verità un rapporto isterico”. E ci sono il tratto e la fotografia del miglior cinema italiano: la passerella di un premier portoghese nel cortile del Quirinale, sotto a un temporale che sembra la fine del mondo o forse di un’epoca; il viaggio delle lacrime di un astronauta che si perdono in assenza di gravità. Una scena che è un po’ cappella Sistina, un po’ E.T. Un papa nero, rasta, che va via in motocicletta.
C’è sopra a tutto l’amore per una moglie desiderata e perduta, struggente come il ricordo dei suoi abiti colorati e di quando attaccò una spilla a una giacca, “ma tu non sei una signora, sei la mia ragazza”. E l’amore per i figli cui bisogna riconoscere, prima o poi, la saggezza guadagnata nel tempo. “Noi siamo migliori di voi perché voi ce l’avete insegnato”, dice Dorotea. Non accadrà il peggio che temete, non lo faremo succedere. È un passaggio di testimone, la Grazia. L’atto di fiducia in un futuro che cerca il coraggio di sciogliere nodi che il passato ha consegnato intatti, inestricabili. È un modo per riprendere fiato. “Non respiri”, dice Isa Rocca a Dorotea, nel carcere in cui vive per aver assassinato nel sonno il suo compagno. “No, non respiro”.
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