Quanto è bello e oscuro ‘Re Chicchinella’, la favola nera che Emma Dante illumina

È una notizia doppiamente bella: il tutto esaurito al Piccolo Teatro Studio di Milano da tre settimane in qua e la lunga tournée all’estero che si appresta a iniziare. Applaudito da noi, presto in scena in Francia e perfino in Cina dove verrà ospitato in giugno, l’ultima novità di Emma Dante, Re Chicchinella, è un spettacolo di autore nel senso migliore del termine, intenso e personale e con la complicità della sontuosa lingua, il napoletano del 1634, di Giambattista Basile.

Giugliano o Napoli: dov’era nato Basile, il papà di tutte le favole

Una conferma, anche, del valore culturale del teatro della regista siciliana, che iniziò la sua ricerca nel 1999 a Palermo con un suo gruppo, la Compagnia Sud Ovest Occidentale (con il Piccolo di Milano coproduce lo spettacolo), concentrandosi sul lavoro fisico degli attori, il montaggio delle emozioni sempre fiero e radicale, la multiforme e viva umanità delle storie. Spettacoli memorabili come Le sorelle Macaluso, Misericordia, per citare i più recenti, trasposti poi anche nel linguaggio del cinema.

Da qualche stagione, Emma Dante ha avviato, appunto, una personale rilettura di quel capolavoro che è Lo cunto de li cunti di Basile, la raccolta di 50 favole “nere” a cui si era ispirato anche Matteo Garrone per il Racconto dei racconti, il bel film del 2015. Re Chicchinella, dopo La Scortecata e Pupo di zucchero, conclude anzi una ideale trilogia “basiliana” , grottesca quanto amara, di Emma Dante.

Qui la surreale vicenda ha per protagonista un re: dopo aver defecato, il sovrano per pulirsi utilizza per errore una gallina viva, la quale si insinua nel suo corpo regale e da lì produce ogni giorno uova d’oro. L’insolita “ricchezza” è una gioia per la corte e la famiglia del re, adulato di sorrisi e pranzi purché prosegua la dorata produzione, ma risulta una condanna per lui, sempre più solo e povero di vita, al punto da scegliere di morire di fame per annientare quel “male”, cioè la gallina.

La riscrittura di Emma Dante, con sorpresa finale, si concentra sulla “famiglia terribile”, sui grotteschi “parenti serpenti”, avidi, volgari e, in contrapposizione, sulla inquieta solitudine del sovrano, il bravissimo Carmine Maringola in una strana veste nera, a torso nudo, che con bella fisicità spiritata e selvaggia si affanna e soffre davanti a noi. Nulla è però illustrativo. La scena è vuota e, come è nel linguaggio artistico di Emma Dante, solo il corpo dei 15 attori – e tutti meritano di essere lodati per intensità e forza – diventa il luogo della lotta emotiva, politica, mitica, su cui si misura la storia. Il risultato è uno spettacolo dei suoi, di emozioni e percorsi diversi, di amarezza e compassione, una mescolanza di arcaico e quotidiano, di spirituale e concreto, dove quello che non si vede conta più delle presenze, e risuona aspro e duro anche tra le dolci note di Battiato e Schubert.

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