Morto George Foreman, leggenda della boxe
Con George Foreman, morto all’età di 76 anni, si chiude definitivamente l’epoca dei leggendari pesi massimi degli anni Settanta. Quella che oltre a lui vedeva dominare la scena dello sport e della società Muhammad Ali, Joe Frazier, Ken Norton e tanti altri. L’epoca del ‘’When We Were Kings” (“Quando eravamo re”), titolo del documentario che vinse l’Oscar nel 1996, una epopea umana e sociale del più famoso incontro della storia della boxe, quello tra Ali e Foreman a Kinshasa nel 1974.
Messico 1968 e la bandiera americana
Foreman è stato un uomo tendenzialmente dentro gli schemi, forse per questo amato maggiormente nella seconda parte della carriera, quando incredibilmente si riprese il titolo mondiale dei pesi massimi all’età di 45 anni a distanza di 20 anni dalla prima volta. Mai nessuno così vecchio era ed è più riuscito a salire sul trono della categoria più importante e affascinante. Dentro gli schemi in Messico 1968: mentre Smith e Carlos alzavano il guanto nero al cielo nella protesta più forte mai fatta in una Olimpiade, lui dopo aver conquistato la medaglia d’oro iniziò a correre sul ring sventolando la bandiera americana. Poteva essere un altro Peter Norman (l’australiano che pagò caro il sostegno a Smith e Carlos sul podio), ma non recitò la parte del terzo uomo. “Voglio che tutti sappiamo che sono un americano felice”. Volle insomma godersi il trionfo, il riscatto da una vita iniziata in maniera complicata a Marshall, in Texas. Padre operaio con il vizio della bottiglia (dentro la quale finiva tutto lo stipendio), la madre cuoca. Tanti fratelli, pochi soldi. George arrotondava piazzandosi al centro di una strada malfamata, una sorta di snodo cittadino, pretendendo un quarto di dollaro dai malcapitati che passavano da lì.
Ali-Foreman, 50 anni fa Rumble in the Jungle: l’incontro nel cuore dell’Africa entrato nella storia della boxe
La sfida di Kinshasa con Ali
Restò dentro gli schemi anche dopo essere diventato, da professionista, campione del mondo, distruggendo a Kingston – in Giamaica – Joe Frazier. Perfetto per essere adescato nella trappola del personaggio alternativo per antonomasia, Muhammad Ali. Foreman restò irretito, prigioniero nel leggendario ‘Rumble in the Jungle’, probabilmente il più famoso incontro della storia della boxe. L’evento di Kinshasa del 1974 andò oltre in ring. Per il dittatore Mobutu fu l’occasione di mettere lo Zaire sulla carta geografica (a costo di dissanguare le casse dello stato). Per gli amanti della musica fu l’occasione per un irripetibile meeting: BB King, James Brown, Miriam Makeba, tanto per citarne alcuni. Interpreti di uno straordinario concerto che praticamente durò giorni.
Il pastore tedesco Dago
Foreman, nero come Ali, fu odiatissimo e trattato da bianco. Colpa anche di Dago, lo splendido pastore tedesco dal quale non si separava mai. Era con lui nella conferenza di presentazione alla stampa internazionale dell’evento che si tenne a Parigi. Poi lo portò anche a Kinshasa, e fu il suo grande errore. In quel pastore tedesco i congolesi videro il simbolo della dominazione feroce dei belgi, che usavano lanciare branchi di cani contro la gente del popolo che si opponeva. E tutti si scatenarono al celebre grido di ‘Ali bomaye’, Ali uccidilo.
(foto di Ken Regan/Disney General Entertainment Content)
La chiamata del Signore
Foreman quell’incontro lo perse, e male. Restò sul ring fino al 1977, dando vita ad altre battaglie (su tutte quella con Ron Lyle, un ex rapinatore, in un match drammatico dai tanti atterramenti reciproci). Poi chiuse con la sua prima vita, divenne ministro della Chiesa del Signore Gesù Cristo e si dedicò ad attività filantropiche. La folgorazione era arrivata dopo la sconfitta contro Jimmy Young a San Juan di Porto Rico. Foreman chiuse il match senza più una stilla di energia. Negli spogliatoi avvertì una sensazione di morte apparente prima di quella ‘chiamata’ dall’alto, anche se i medici – più laici nell’affrontare tali questioni – parlarono di allucinazioni dovute alla disidratazione.
L’incredibile ritorno e il titolo a 45 anni
Nel 1987 avvenne l’impensabile. Suscitando non poche perplessità, tornò a combattere per raccogliere fondi per il suo centro in Texas per aiutare i giovani in difficoltà. Il passato, Kinshasa, Ali, la parata di Rolls Royce nel suo garage, il leone e la tigre che vivevano con lui in una villa con otto stanze da letto e sei bagni, la sauna, la piscina e il salone da gioco. Tutto sembrava lontanissimo. Sul ring c’era un altro uomo, più vecchio ma con una determinazione straordinaria, capace di vincere 24 incontri consecutivi prima di sfidare Evander Holyfield -nel 1991- per il titolo. A fare gli onori di casa c’era Donald Trump, che ancora non era presidente americano neanche nei pensieri (o forse sì…) e del quale Foreman divenne buon amico. Contro Holyfield, Foreman fece un figurone ma perse ai punti. Non mollò però e tre anni dopo diventò il campione del mondo dei pesi massimi più anziano della storia, a 45 anni: mise ko Michael Moorer e andò a inginocchiarsi all’angolo guardando il cielo.
Vincente anche negli affari
Straordinariamente rilanciato nella boxe, ma anche nel conto in banca. Questo soprattutto grazie alla sua attività di imprenditore. Iniziò a vendere bistecchiere e gli americani diedero fiducia a un volto diventato simpatico e rassicurante. Il “George Foreman Grill” riscosse un successo commerciale enorme, al punto che nel 1999, la Salton Inc. gli versò 137,5 milioni di dollari per l’uso del suo nome nel marchio. I suoi settantasei anni non hanno avuto un momento banale, dall’adolescenza vissuta in bilico sul mondo del crimine a una vita privata intensissima. Si sposò cinque volte e ebbe dieci figli. Cinque i maschi, tutti chiamati George. Salite e discese, senza che nessuno gli abbia mai regalato nulla. Perché come lui stesso amava dire, “Niente è gratis nella boxe, eccetto, a volte, il dolore”.
Condolences to George Foreman’s family. His contribution to boxing and beyond will never be forgotten. pic.twitter.com/Xs5QjMukqr— Mike Tyson (@MikeTyson) March 22, 2025
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