Tra solitudine e ricerca di nuovi modelli: i nomadi digitali non sono più così nomadi
“Credo di appartenere a una generazione insoddisfatta dello status quo”. Dario Vignali, classe 1991, è tra i fondatori di Marketers, community di imprenditori digitali. Dialogando con lui di come i giovani guardano il mondo del lavoro oggi, la parola “insoddisfazione”, ricorre spesso: “Credo sia in atto un’evoluzione culturale profonda. Un piccolo gruppo di persone cerca qualcosa di nuovo e crede nel cambiamento dei vecchi modelli. La Generazione Z e i Millennials sono portavoce di questa insoddisfazione, orientandosi verso la ricerca di un nuovo equilibrio tra vita e professione”. Una presa di coscienza che l’esperienza passata della pandemia, anche grazie allo smart working forzato e al boom degli strumenti digitali, ha accelerato: “Il Covid ha reso evidente la precarietà della realtà e ha spinto le persone a cercare una vita più soddisfacente. Questo si traduce in fenomeni come lo spostamento dalle grandi città verso luoghi più naturali, la volontà di mettersi in proprio, la ricerca di lavori da remoto che offrano flessibilità e, soprattutto, un ‘ purpose’, uno scopo. Non si tratta solo di vivere meglio, ma di trovare un significato nel proprio lavoro e nella propria vita”. Un cambio di paradigma che, in molti casi, è già realtà. I dati raccolti dall’Osservatori Digital Innovation del Politecnico di Milano, raccontano che ad oggi, ci sono 3,55 milioni di lavoratori da remoto. Un fenomeno che non sembra rallentare nonostante lo stop a tutte le misure di smart working semplificato: per il 2025, si prevede una crescita del +5%, che porterebbe a toccare le 3,75 milioni di persone. Ma qual è il risvolto della medaglia?
La solitudine
Soli, pur essendo sempre connessi. La solitudine tra le nuove generazioni di lavoratori è un sentimento in crescita. A cambiare non è solo la struttura dei modelli di lavoro, ma anche di quelli relazionali: per la Gen Z, che ha iniziato la carriera durante la pandemia, e i Millennial che spesso faticano a definire la propria identità professionale, l’adattarsi a una realtà dove il contatto fisico è limitato può portare a una nuova forma di esperienza lavorativa. Questa sorta di isolamento può sfociare in sentimenti di tristezza, solitudine e frustrazione.
“La difficoltà nel costruire legami significativi può far sentire molti giovani professionisti disconnessi, non solo dai colleghi, ma anche dal loro stesso ruolo e dalle aspirazioni che li motivano. La solitudine, quindi, non è solo un effetto collaterale del lavoro da remoto, ma una realtà con cui le nuove generazioni si confrontano ogni giorno, spingendo a ripensare l’approccio al lavoro e alla connessione sociale”.
Nomadi ma non troppo
Ma l’essere umano, come si sa fin dall’antichità, è un animale sociale. Così, anche tra i nomadi digitali si stanno creando delle vere e proprie comunità. Non conta tanto la tipologia o il settore di lavoro, quanto il condividere lo stesso approccio. Chi gira il mondo lavorando sta iniziando a fermarsi più tempo nei luoghi che visita. Questo movimento di radicamento temporaneo sta guadagnando popolarità, con esempi come le farm in Nuova Zelanda, dove i lavoratori si fermano per aiutare con i raccolti, o i camping in Giappone e Cina, dove i nomadi digitali scelgono di stabilirsi per settimane o mesi, immergendosi nella cultura locale e stabilendo relazioni durature. “Noi, ad esempio, organizziamo il Marketers World, un evento incentrato sulla formazione. Ma vediamo che ci partecipa tende a tornare soprattutto per il senso di community, per far parte di una “tribù” con la stessa visione del mondo e per trovare ispirazione nei risultati altrui. Sta nascendo una nuova società all’interno della società, con persone che si discostano dal modello tradizionale e cercano nuove strade”, conclude Vignali.
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