László Nemes torna a Venezia con Orphan: “Il passato non sparisce”
VENEZIA – Budapest, 1957. Dopo la repressione dell’insurrezione contro il regime comunista, Andor, un giovane ragazzo ebreo cresciuto dalla madre con il mito di un padre morto da eroe, vede la sua vita sconvolta dall’arrivo di un uomo che afferma di essere il suo vero padre. Orphan, in concorso alla Mostra di Venezia, è un film profondamente personale per László Nemes. E’ ispirato all’infanzia del padre del regista – già premio oscar per Il figlio di Saul, nella Budapest degli anni Cinquanta. Al centro, il rapporto tra padre e figlio in una società segnata dalla guerra e dall’Olocausto, le scelte dolorose delle madri sopravvissute e il peso del trauma generazionale trasmesso dai genitori ai figli. Una parabola universale sul crescere, l’accettare le zone d’ombra dentro di sé, il fare i conti con una pagina di storia che continua a perseguitarci.
Perché ha sentito il bisogno di raccontare proprio questa storia?
“Perché l’ho portata con me da sempre, è una storia di famiglia, la storia di mio padre. Lui è cresciuto fantasticando su un padre che era stato ucciso durante l’Olocausto, aspettando che tornasse. Poi, a dodici anni, si è ritrovato con un padre completamente diverso. E dodici anni sono già un’età in cui si capisce che il mondo ti cambia radicalmente sotto i piedi. Io ero ossessionato da questa storia e volevo raccontarla, anche perché racchiude in sé gran parte del Novecento e dei suoi drammi, non solo in Ungheria ma in tutta l’Europa, nella civiltà occidentale. Credo che non abbiamo ancora elaborato i traumi del secolo scorso, siamo ancora nello stesso ciclo storico. Se avessi potuto, avrei fatto questo film prima. È una storia più grande, ma allo stesso tempo fondativa. Mi ha fatto pensare ad Amleto: il principe che parla col fantasma del padre e cerca di liberarsi del falso re. Ha radici antropologiche. Realizzando il film ho scoperto questo. E penso che noi, come civiltà, cerchiamo di fuggire dal passato, ma il passato resta lì. Non sparisce solo perché scappiamo. Continua a tormentarci”.
In che modo “Il figlio di Saul”, che ha vinto l’Oscar, ha cambiato la sua vita?
“Mi ha cambiato perché era una storia molto personale, che avevo custodito per anni. Improvvisamente è diventata realtà esterna, in cui altri potevano immergersi. È un’esperienza che ti cambia la vita: apri una finestra sulla tua anima. Fa paura, ma è anche bellissimo. È un’esperienza spirituale”.
Si considera una persona spirituale?
“Penso di sì”.
Non sente la pressione di dover realizzare ogni volta un nuovo capolavoro dopo l’Oscar a “Son of Saul”?
“No. Beckett diceva: ‘Fallisci, fallisci ancora, fallisci meglio’. Cerco di seguire questo. Provo a fallire meglio”.
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